Ragazzo suicida a Lavagna, la lezione che dobbiamo trarne

Ragazzo suicida a Lavagna, la lezione che dobbiamo trarne

I più recenti fatti di cronaca, l’ultimo è quello di Giovanni che si butta dal balcone durante una perquisizione in casa da parte della Guardia di Finanza, rimandano alla necessità di rilanciare una cultura psicologica e un’adeguata conoscenza degli strumenti psicologici. Troppe cose sembrano accadere per mancanza di informazioni di base.

Il problema dell’acting out, in adolescenza per esempio (così viene chiamato il comportamento messo in atto da Giovanni), è un problema molto presente. Il termine significa letteralmente “passaggio all’atto” e si riferisce ai comportamenti aggressivi e impulsivi messi in atto da un individuo per esprimere vissuti che non riescono ad essere elaborati sul piano cognitivo e verbalizzati ma vengono comunicati solo attraverso l’agito.

Sono comportamenti per niente o poco riflessivi: l’azione segue immediatamente l’impulso senza che la persona sia in grado di anticipare uno scenario con le conseguenze del suo gesto. Chi lavora con gli adolescenti sa che l’agire comportamenti improvvisi, imprevedibili, inattesi, è una delle forme privilegiate di espressione delle emergenze emotive del ragazzo.

Deve essere andata così per Giovanni di fronte a quella perquisizione inaspettata: si sarà sentito scoperto? avrà avuto paura di essere accusato? di essere giudicato? di essere arrestato? si sarà sentito in qualche modo “spacciato”? Forse sua madre voleva solo spaventarlo… Da una parte è comprensibile che abbia fatto riferimento e chiesto aiuto a un’autorità superiore per gestire una situazione di cui aveva perso il controllo, ma perché non rivolgersi a un ente più coerente con il problema? Sicuramente ci sono cose della vicenda che non sappiamo, ma perché non puntare più sulla comprensione che sulla repressione?

E’ anche comprensibile che i finanzieri, tutti padri di famiglia da quello che leggiamo, si siano prodigati per accogliere la richiesta. Né loro, né la madre di Giovanni avevano gli strumenti per prevedere l’impatto emotivo che avrebbe avuto sul ragazzo, anche più suscettibile di altri adolescenti per la sua storia.

Giovanni era stato adottato all’età di un anno, quando aveva già una storia. La capacita di costruire attaccamenti solidi si crea nei primi mesi di vita. I bambini che vivono esperienze di separazione e abbandono entro i 6 mesi di età, dopo un anno nella famiglia adottiva riescono a recuperare e costruire modelli di attaccamento molto simili a quelli di bambini cresciuti in famiglia sin dalla nascita. Oltre i 6 mesi questo possibilità diminuisce e aumenta il rischio di insicurezza e disorganizzazione. E’ più difficile per il bambino acquisire la tranquillità del mantenimento del legame con le figure genitoriali perciò ha difficoltà ad allontanarsene, ad essere sincero, ad esprimere il disagio… spesso il fisiologico distacco adolescenziale emotivo, fisico e/o ideologico dai genitori, come anche l’eventualità di poterli deludere, corrisponde nel vissuto personale, alla perdita del loro affetto.

C’è la spinta all’autonomia ma si è ancora molto dipendenti da loro, per questo a volte sono molto arrabbiati, tendenzialmente più arrabbiati e oppositivi di altri adolescenti. Più è difficile staccarsi, più è forte la rabbia, emozione notoriamente utile alla demarcazione, al distacco, all’affermazione di sé. Probabilmente anche Giovanni era alle prese con questa difficoltà e negli ultimi tempi, da ragazzo diligente si era trasformato, trascurando la scuola e accompagnandosi a cattive amicizie.

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Genitori vs insegnanti: nella guerra tra poveri a perdere sono i ragazzi

Genitori vs insegnanti: nella guerra tra poveri a perdere sono i ragazzi

Tra genitori e insegnanti lo studente ci rimetteimage

Inizia un nuovo anno scolastico, facciamolo partire bene. La fine dello scorso anno scolastico è rimasta impressa per gli episodi di inattesa violenza da parte di alcuni genitori verso gli insegnanti dei propri figli. Episodi ravvicinati, forse anche un po’ enfatizzati dai media, che comunque hanno fatto pensare a uno scontro generale, a una guerra in corso tra le due categorie. Se davvero ci fosse sarebbe una guerra tra poveri.

Da una parte c’è l’attribuzione totale alle famiglie, da parte della scuola, della responsabilità delle problematiche scolastiche di uno studente, dall’altra l’attribuzione totale agli insegnanti e alla scuola, da parte delle famiglie. Nessuna delle due posizioni evidentemente può essere considerata realistica. La famiglia ha il suo impatto nella costruzione della personalità dello studente, su questo non c’è dubbio, è stata dimostrata da più parti l’importanza della relazione con le figure di riferimento, genitori o loro sostituti, ma dobbiamo anche considerare che la scuola è un luogo in cui si trascorre molto tempo e per forza di cose vi si costruiscono rapporti significativi e perciò in grado di incidere sull’equilibrio o comunque sullo stato d’animo di uno studente.

La scuola ha il suo peso, in positivo e in negativo: può essere fonte di disagio se non si riesce a costruire rapporti che sostengono, può diventare anche una base sicura se invece ci si riesce, un luogo protetto in cui “rifugiarsi” se le relazioni in famiglia sono, stabilmente o temporaneamente, insicure. L’escalation di violenza tra genitori e insegnanti è allora la punta di un iceberg, il sintomo di una realtà da esplorare. Spesso l’episodio violento è alla fine di un percorso in cui uno o entrambi gli interlocutori hanno dato poco valore alle parole dell’altro, la fine di un periodo di reciproca sordità.

E mentre i due interlocutori litigano il terzo, lo studente, ci rimette. Sia l’insegnante che il genitore sentono messo in discussione il proprio ruolo e il proprio operato e non riescono a cogliere nella rivendicazione dell’altro la richiesta di collaborazione sul progetto educativo e formativo per lo studente.

Ho sentito dire che la scuola “non può sostituirsi per un ruolo (educativo) che non le compete”, io credo che nessuno, figura professionale o istituzione, che abbia a che fare con un bambino, un fanciullo o un ragazzo possa mai dire che il ruolo educativo non gli competa. Siamo tutti coinvolti. Che ci sia bisogno di un’alleanza educativa tra scuola e famiglia non c’è dubbio e si è tutti concordi su questo, il dubbio nasce su come debba essere costruita questa alleanza. Per i genitori sono gli insegnanti a doversi avvicinare agli studenti e alla famiglia, per gli insegnanti è il contrario e vorrebbero la complicità dei genitori a prescindere.

Ho assistito più volte a colloqui difficili tra insegnanti e genitori, i genitori hanno l’impressione che il proprio figlio venga perseguitato o non capito, gli insegnanti hanno l’impressione di doversi sempre difendere dalle accuse, ognuno si irrigidisce su una posizione difensiva. Se il dialogo non si ferma alle prime impressioni e incomprensioni si può arrivare a capirsi: quando il genitore capisce la buona fede dell’insegnante e/o l’insegnante capisce la richiesta di aiuto del genitore, lo scontro diventa velocemente collaborazione.

Oggi gli insegnanti devono argomentare e giustificare il loro giudizio su un alunno, non è più dato per buono di diritto. Secondo alcuni è perché “i genitori non accettano di avere figli asini”. Non credo che sia così, anche se a volte i genitori sopravvalutano le capacità dei figli penso che oggi non sia più possibile dividere semplicemente gli studenti in asini e bravi, le cose sono più complesse e probabilmente gli asini non esistono. Esistono ragazzi in difficoltà e trovare nella scuola e in un insegnante un punto di riferimento può fare la differenza. Nessuno studente è asino o bravo a priori, ma in relazione a tanti fattori tra cui la sua storia all’interno di quella specifica atmosfera familiare e il rapporto che costruisce nel tempo con gli insegnanti che incontra sulla sua strada…….

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Adolescenti immigrati: ragazzi sospesi tra due culture

Adolescenti immigrati: ragazzi sospesi tra due culture

Un senso di estraneità inevitabileimage

Sono in corso gli esami di maturità. Chi è stato ammesso ha il 99,4% di probabilità di essere promosso, per lo meno secondo i dati del 2015, perciò Jay, uno dei tanti adolescenti immigrati di seconda generazione che frequentano le nostre scuole, ha molte probabilità di essere promosso, visto che quest’anno è stato ammesso.

Jay ha 21 anni, ha frequentato il quinto anno ma sono otto anni che è al liceo. E’ nato a Roma, ma i suoi genitori sono filippini.

Si ritiene che la condizione di precarietà generata dall’immigrazione permanga per almeno due generazioni, che lo status di “diversi” esponga a maggiori difficoltà nella realizzazione del proprio percorso personale a partire da quello scolastico e Jay sembra confermare queste considerazioni: ha perso tre anni nel corso delle superiori, in anni di frequenza diversi, e questi esami non si sa come finiranno, ha paura di rientrare in quello 0,6% che non si conquista il diploma di maturità. In effetti non ha neanche in mente un “dopo” che possa essere considerato un progetto reale, ha soltanto un obiettivo tanto ambizioso quanto nebuloso, completamente scollegato dalla sua situazione attuale: andarsene e diventare ricco, la ricchezza farebbe avvicinare le persone e lo considererebbe un riscatto della vita.

Jay è arrabbiato con i suoi genitori che lo vorrebbero ingegnere, avvocato o medico, ma secondo lui non si sono mai realmente preoccupati della sua situazione scolastica, neanche quando ha avuto problemi importanti con i compagni della scuola media.

Con i suoi genitori si sente a disagio e l’ostilità che prova gli fa detestare tutto ciò che li caratterizza, a cominciare dalle loro origini perciò detesta le Filippine e i filippini e come altri nella sua condizione ignora la sua lingua madre e non vuole saperne di impararla. I suoi genitori invece non parlano italiano, conoscono solo quel poco che gli serve per lavorare così quando litigano ognuno si esprime nella lingua che conosce meglio e l’incomprensione è assicurata anche da questo.

A scuola tutto sommato non si è trovato male nelle diverse classi che ha frequentato, ogni tanto rivede qualche vecchio compagno, ma in generale non ha mai avuto molti rapporti con i compagni di classe, ha sempre sentito di condividere poco con loro. Sii sente estraneo agli italiani e all’Italia, anche se si sente italiano, così come si sente estraneo al suo paese d’origine.

Durante l’adolescenza i ragazzi soddisfano nel gruppo il proprio bisogno di socializzazione, frequentando i coetanei e assumendo i loro modelli di vita  gli adolescenti immigrati si garantiscono l’integrazione nel paese che li ospita. Quando questo non avviene, il ragazzo tende più a rifugiarsi nell’isolamento, a ripiegare su se stesso, anche se il gruppo dei pari rimane un termine di paragone.

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Uno Psicologo nella Scuola

Uno Psicologo nella Scuola

Uno Psicologo nella Scuola
Alpes Italia 2015Uno Psicologo nella Scuola
di Patrizia Mattioli
Editrice Alpes Italia
pp. 142 I° edizione Roma 2015
€ 13,00 ISBN 978886531-314-5
È uscito a gennaio il mio nuovo libro Uno Psicologo nella Scuola
E’ un libro che ho scritto per raccontare la scuola e l’esperienza di  venticinque anni di consulenza scolastica. Ė un libro che parla del lavoro dello psicologo, ma soprattutto è un libro che parla di scuola, dell’incontro di studenti adolescenti, insegnanti e genitori, delle dinamiche che si costruiscono, della difficoltà di trovare un linguaggio comune. È rivolto a tutti i protagonisti della scuola, ma soprattutto a genitori e insegnanti,. Attraverso le storie e le esperienze raccontate il libro vuole fornire strumenti utili ad avvicinarsi e comprendersi reciprocamente, oltre ad avvicinare e comprendere il complicato e delicato mondo scolastico adolescenziale.
La scuola è una rete di relazioni dove studenti, insegnanti e genitori si incontrano e incrociano i propri modi di essere. Da questo incontro nasce un significato comune che offre ad ognuno un’immagine di sé che non può più prescindere dagli altri, un’identità scolastica che definisce per ognuno il suo sentirsi o non sentirsi parte di quella comunità.
La Scuola è uno scorrere parallelo e simultaneo di momenti di vita che continuamente riverberano gli uni con gli altri creando contrasti che rappresentano allo stesso tempo momenti di crisi che possono diventare momenti di crescita .
Sono importanti le storie personali dei ragazzi, dei genitori, degli insegnanti perché è attraverso le storie che si riesce a comprendere la coerenza di una crisi ed è possibile trasformarla in crescita.

Il libro si compone di due parti. Nella prima parte vengono affrontati gli aspetti teorici sia per quanto riguarda le norme che regolano la presenza dello psicologo a scuola e il ruolo che ne emerge, sia per quanto riguarda l’approccio teorico di riferimento che guida chi scrive. Viene illustrato il modello cognitivista post razionalista e la sua applicazione alle dinamiche scolastiche, con una parentesi sui vissuti dei protagonisti della scuola e uno ampio spazio dedicato alla lettura post razionalista del percorso adolescenziale.
La seconda parte è dedicata alle diverse esperienze che la presenza a scuola consente allo psicologo: la consulenza, l’approccio alle emergenze relazionali, la formazione dei gruppi di tutor per l’Accoglienza, i sondaggi conoscitivi, gli incontri a tema e le giornate di approfondimento. Tutti gli spazi raccontano le strategie utilizzate e nello stesso tempo sono un pretesto per l’approfondimento di temi adolescenziali.

Il libro è disponibile su Amazon e su tutte le librerie online e ordinabile presso qualsiasi libreria

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e l’Autrice cell 329 9433570

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Scuola, un intreccio di relazioni

Scuola, un intreccio di relazioni

Scuola, un intreccio di relazioni

Per Fabio, studente del primo anno, la prof lo ha preso di mira; Per Anna, insegnante, Fabio è superficiale e non si applica; Per Gianni, padre di Fabio l’insegnante non capisce suo figlio. Studenti, insegnanti, genitori, tre modi di vedere le cose. Stessa situazione, interpretazioni diverse. La scuola è un intreccio di relazioni in cui i protagonisti sono alla continua ricerca di un linguaggio comune per intendersi. Non sempre ci riescono, qualche volta chiedono aiuto allo psicologo. Ne parlo nel mio libro Uno Psicologo nella Scuola, edito da Alpes Italia, in uscita in questi giorni.

Chi sono studenti, insegnanti e genitori?
Gli studenti della scuola superiore sono adolescenti con tutti i problemi comuni a questa fase di crescita: l’insicurezza, la paura del giudizio, la vergogna, il bisogno di accettazione e conferma, il bisogno di essere guidati senza sentirsi legati, ecc… Capire i loro vissuti aiuta a comprendere perché per esempio perdono la motivazione allo studio, o perché invece di andare a scuola passano la mattinata sugli autobus, o perché non riescono a oltrepassare il portone di casa colpiti da terribili mal di pancia…
Sono ragazzi sensibili, all’atteggiamento dei compagni, alle aspettative dei genitori, al giudizio degli insegnanti. Dagli insegnanti si aspettano un riconoscimento prima come persone che come studenti, non si accontentano di sentirsi confusi tra i tanti nella classe.

Gli insegnanti entrano a scuola con i temi comuni a chi sceglie questa professione: il desiderio di guidare e incidere sulle giovani menti, di essere riconosciuti positivamente dagli studenti, la paura di deludere le aspettative (di alunni, colleghi, genitori, dirigenti) date le sfaccettate aspettative riposte su di loro. A volte il carico è troppo alto.

Ci sono le storie. Se è naturale chiedersi quale situazione familiare abbia alle spalle uno studente soprattutto se si fa notare, lo è di meno per l’insegnante perché è un luogo comune che gli insegnanti debbano essere obiettivi e imparziali e lasciare fuori dalla classe le proprie questioni private. Poi ci sono i genitori che oggi funzionano meglio come “base sicura” che come educatori guardiani dei valori d’appartenenza, come invece erano i genitori di qualche tempo fa.

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