da patrizia mattioli | Gen 7, 2025 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Il successo e la popolarità fanno male? Sì, se avvengono improvvisamente e per questo scuotono bruscamente il proprio senso di identità personale.
Un cambiamento improvviso, anche positivo, come una vincita, un successo e una popolarità repentini, creano una discontinuità nella propria immagine di sé e minano il proprio equilibrio psicologico. La solidità e la stabilità dell’immagine che abbiamo di noi stessi (positiva o negativa) è un bisogno umano. Dobbiamo continuamente avere la sensazione di essere qualcuno e di sapere bene chi è quel qualcuno. Un senso di identità personale stabile e definito, in cui cioè si è consapevoli delle proprie caratteristiche, permette di percepirsi e valutarsi in modo costante nel tempo. Aspetto fondamentale date la mutevolezza e l’imprevedibilità delle vicende della vita.
Il mantenimento di un’identità personale stabile è dunque importante e vitale, e se diventa incerto non si è più in grado di funzionare adeguatamente fino a perdere il rapporto con la realtà.
Forse è quello che è successo allo scrittore Paolo Cognetti, che racconta di aver subito un trattamento sanitario obbligatorio (Tso) a seguito di un crollo psicologico con forti oscillazioni emotive e comportamenti maniacali. È plausibile ipotizzare che il successo della sua opera Le otto montagne gli abbia fatto bruciare le tappe e questo abbia provocato soddisfazione, ma anche forti oscillazioni interiori. La rottura sentimentale di un rapporto decennale, togliendo anche un altro pilastro identitario, ha probabilmente fatto precipitare gli eventi.
In conclusione, un senso di identità stabile è condizione essenziale per sentirsi vivi. Bruschi cambiamenti di vita: matrimonio, genitorialità, distacchi, vincite, successi, popolarità modificano profondamente l’immagine che una persona ha di sé e causano disagio e disorientamento che può durare nel tempo, fino a che i nuovi stati non vengono elaborati e la nuova condizione di vita non viene integrata in una nuova identità.
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da patrizia mattioli | Dic 15, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Libri, NEWS, Psicologia
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La mia storia dei Piccoli Psicologi, di cui ho iniziato a parlarvi in un precedente post,prosegue con la pubblicazione di un’altra avventura. Nel viaggio attraverso la storia della psicologia, dopo aver esplorato le teorie e il lavoro di Sigmund Freud e di sua figlia Anna, torniamo indietro nel tempo per conoscere un altro personaggio centrale nella nascita della psicologia moderna: Wilhelm Wundt.
Se i Freud e la psicoanalisi hanno posto l’accento sullo studio delle dinamiche psichiche più profonde e complesse, Wilhelm Wundt è stata una figura leggendaria nella storia della psicologia, che con il suo lavoro ha favorito l’ingresso della psicologia tra le discipline scientifiche.
Nato nel 1832, in Germania, fu uno dei primi a usare metodi scientifici per studiare la mente umana, fondando il primo laboratorio di psicologia a Lipsia nel 1879. Ma prima di diventare uno dei più grandi psicologi, Wilhelm Wundt è stato un ragazzino curioso e introverso, con una mente inquieta e una passione per la scoperta.
Vi propongo un estratto delle sue avventure.
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Con i cugini però, non andava sempre male. C’erano anche volte in cui si divertiva con loro.
In una notte di stelle cadenti, i tre cugini erano particolarmente affiatati e facevano a gara a chi le vedeva per primo. Wilhelm era sempre il primo, Rufus il secondo e Gustav il terzo.
Wilhelm trovava strano questo aspetto: le stelle erano le stesse ma Rufus e Gustav sembravano… come distratti.
Senza saperlo stava cominciando a studiare quello che sarebbe diventato uno degli argomenti più interessanti per lui: lo studio dei tempi di reazione, cioè lo studio della differenze tra le persone nel modo di reagire agli stimoli.
A volte Wilhelm faceva finta che la sua camera fosse un laboratorio e che lui fosse uno scienziato.
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da patrizia mattioli | Ott 18, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS, Scuola
Della storia di Leonardo, il ragazzo quindicenne di Senigallia, e della sua decisione di togliersi la vita, sappiamo poco. Viene dato molto peso al bullismo subìto nella nuova scuola dall’inizio dell’anno scolastico, come se fosse l’unico responsabile del suo gesto estremo.
Non voglio dire che non sia importante. In adolescenza il bisogno di appartenenza insieme al riconoscimento e al rispetto da parte del gruppo dei coetanei è centrale per consolidare un’immagine di sé positiva e una buona autostima. Il venir meno di considerazione e rispetto può essere molto doloroso, ma considerare il bullismo come unico responsabile, sembra una lettura riduttiva per un fatto così importante, una relazione di causa-effetto quasi deresponsabilizzante verso tutte le istituzioni implicate nel percorso educativo di uno studente. Il suo gesto è l’atto finale di un dramma iniziato molto tempo prima.
M In un fatto così grave non possiamo pensare a un unico fattore, ma a una condizione di fragilità costruita nel tempo, nel corso della sua breve vita nei diversi contesti: a casa, a scuola, nelle relazioni interpersonali, tenendo conto delle predisposizioni personali.
Quello che sappiamo dai giornali è che qui ci sono genitori separati, uno dei due lontani, insegnanti distratti e poco empatici, compagni fragili che mal sopportano la diversità e la fragilità di un loro pari, una pistola fin troppo facile da sottrarre. E che non è stato dato il giusto peso alla volontà di Leonardo di lasciare la scuola.
Quando un bambino, un fanciullo o un adolescente manifesta l’intenzione di non andare più a scuola, non lo fa perché è pigro, svogliato o chissà cosa, ma perché ha un problema. Un problema che può essere legato a come si sente, a come sta a scuola, alla difficoltà ad allontanarsi da casa, a una difficoltà di apprendimento… Probabilmente per Leonardo erano in gioco tutti i fattori. L’impressione è che lui descritto come silenzioso e introverso, avesse difficoltà a chiedere aiuto e il senso di non avere nessuno su cui contare, che fosse in grado di ascoltare, comprendere e accogliere il suo disagio.
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da patrizia mattioli | Set 9, 2024 | Adolescenza, Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Uccide padre, madre e fratello minore a Paderno Dugnano. Perché? La risposta sta in quegli aspetti psicologici della vita: vissuti emotivi, affetti, aspetti relazionali, che vengono comunemente sottovalutati.Tutta la sfera emotiva viene spesso liquidata come uno scarto evolutivo che si ostina a manifestarsi a dispetto di ogni logica. Quando avvengono fatti eclatanticome la strage della famiglia operata da un diciassettenne, ci si interroga sui motivi. Si interrogano gli esperti, gli psicologi, psicoanalisti, psichiatri, criminologi, che devono essere pronti, con spiegazioni convincenti che facciano capire quanto sia importante accettare quella parte più istintiva. Quanto sarebbe più utile conoscerla e riconoscerla per renderla costruttiva e funzionale piuttosto che impulsiva e distruttiva.
Agli esperti viene richiesto di fornire strumenti e chiavi di lettura, per riconoscere i segnali che precedono l’esplosione omicida o suicida a seconda dei casi.
Paradossalmente viene richiesto di mettere in luce quello che continuamente e attivamente si cerca di oscurare.
C’è il bisogno di distinguere nettamente tra salute e malattia, tra equilibrio psichico e malattia mentale, per rassicurarsi che certe cose possano succedere solo ad altri. In realtà non c’è una così netta distinzione tra salute mentale e psicopatologia, ma piuttosto si dispongono lungo un continuum. E quella che chiamiamo malattia mentale è a volte il risultato di una lunga storia fatta di cecità e sordità, e che se messi in particolari condizioni tutti noi potremmo sviluppare una patologia e un agito aggressivo.
Spiegazioni che diano la coerenza di quanto è accaduto a Paderno Dugnano, sarebbero possibili solo conoscendo la storia delle persone, della famiglia, cosa abbastanza difficile da risalire con i pochi dati presenti in rete. In generale nella costruzione di una tragedia concorrono più fattori: la storia della famiglia, la storia del ragazzo, i piani di comunicazione, quanto ognuno percepisce l’altro come persona, quanto accoglie le richieste, quanto riconosce le specificità, quanto consente l’affermazione dell’individualità di un figlio adolescente. È per esempio certamente più facile gestire un figlio più piccolo che ancora non manifesta l’oppositività, piuttosto che un diciassettenne che più facilmente contesta, si oppone, protesta e ha più strumenti e forza per farlo.
In adolescenza c’è il problema del passaggio all’atto cioè la tendenza ad agire i disagi che non riescono ad essere verbalizzati.
C’è la tendenza a non riconoscere la presenza di conflitti interiori e a proiettarli sull’ambiente circostante, da qui la difficoltà a elaborare e superare i conflitti stessi e la tendenza a risolvere evitando o eliminando gli ostacoli esterni.
L’agire si manifesta nella quotidianità dell’adolescente la cui forza e attività motoria si sono sviluppate all’improvviso.
La libertà l’autonomia e l’indipendenza per la prima volta acquisite e percepite, favoriscono l’agire.
Le trasformazioni corporee mettono a dura prova il senso di identità che giovane va gradualmente consolidando e sono fonti di attivazioni interne e ancora dell’agire. La spinta alla libertà e all’autonomia porta con sé poi, la paura di rimanere soli,di non poter contare sui familiari se ci si guarda indietro. Questi aspetti possono trasformarsi ed essere percepiti come un senso di esclusione: mentre è lui o lei che si allontana dai genitori e dai familiari, sente di essere escluso e allontanato da loro. Forse è quello che è successo al giovane di Paderno Dugnano.
Quando i genitori gli chiedevano se avesse qualche preoccupazione rispondeva che andava tutto bene. Se c’è qualcosa che si può fare per scongiurare il ripetersi di queste brutte storie è imparare dall’esperienza…….
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da patrizia mattioli | Mag 9, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Genitorialità, Maternità, NEWS
Le origini della festa della mamma risalgono all’antica Grecia. Quella di oggi è una mamma che alla possibilità biologica della maternità ha integrato la realizzazione e affermazione personale anche al di fuori della genitorialità, con non poche difficoltà. Su questo sono state già scritte molte cose.
Mi stimola di più il dibattito sulla effettiva necessità di festeggiare la mamma di fronte a donne che magari madri non lo sono diventate pur volendolo o di fronte a bambini che la mamma non ce l’hanno più, perché non c’è più, perché se n’è andata o perché è poco presente. Soprattutto questo secondo caso direi. Non voglio discutere su quanto possa essere giusto o meno la festa in sé, ma stimolare una riflessione su un problema che si pone per esempio a scuola se le maestre vogliono far preparare i lavoretti da regalare alle mamme.
La reazione è spesso quella di evitare, come atteggiamento protettivo verso i bambini mancanti, per paura di stimolare una sofferenza, sottolineare la diversità, creare un danno. In realtà proteggere i bambini dalle loro storie non sembra così funzionale, sarebbe come dire che non sono in grado di elaborare sentimenti di perdita o di abbandono, e questo sì che potrebbe essere dannoso. I bambini non possono e non devono essere protetti dalle emozioni negative, se queste sono coerenti con le loro esperienze di vita. Devono piuttosto essere aiutati ad esprimerle, a manifestare il dispiacere e la sofferenza, a farli defluire.
Guardiamoci dentro e chiediamoci se, nel tentativo di proteggere un bambino dalla sua sofferenza, stiamo davvero esprimendo una sensibilità o piuttosto stiamo proteggendo noi stessi da quella stessa sofferenza. Come anche (ci stiamo proteggendo), dalla personale incapacità di accoglierla, dalla personale incapacità di sostenere e consolare.
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da patrizia mattioli | Apr 5, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS, Scuola
Nell’ultimo post sottolineavo la mancanza di storia e contesto con cui vengono fornite alcune notizie di conflitti scolastici tra studenti insegnanti e genitori.
La sala professori rende abbastanza l’idea di quello che intendevo.
Il film parla di dinamiche scolastiche e del modo caratteristico dei nostri tempi in cui queste si realizzano. In una scuola media tedesca, ma potrebbe benissimo essere italiana, che si vanta dell’applicazione della tolleranza zero ai casi controversi, gli insegnanti e la dirigente si muovono in maniera incoerente al modello disciplinareche vorrebbero insegnare, o meglio, imporre superando il limite del rispetto dell’altro, lo studente appunto, stimolando reazioni a catena dove i tentativi maldestri di recuperare il controllo della situazione peggiorano ulteriormente le cose. Durante un piccolo consiglio disciplinare convocato per fare chiarezza su piccoli furti avvenuti a scuola, viene fatta pressione sui rappresentanti di classe per estorcere “la verità”.
Il film descrive molto bene come si costruisce un conflitto e come questo possa facilmente essere attribuito all’anello più debole: lo studente, meglio se straniero, che in quanto giovane, e di altra cultura, può essere più facilmente accusato, manipolato, ricattato, colpevolizzato, per eventi di cui non ha alcuna responsabilità. Se poi questo profilo non c’è va bene anche qualcun altro.
La prepotenza ha la meglio sull’evidenza e a farne le spese sono i ragazzi che alla fine reagiscono istintivamente, come impone il momento evolutivo.
La sala professori mette bene in scena come i conflitti abbiano una storia che può essere raccontata a partire da un preciso momento o da quello successivo e in base a questo spiegata da tanti punti di vista. Ognuno può costruirsi la relazione di causa/effetto che preferisce – costruendo una diversa “punteggiatura della sequenza di eventi”, come direbbe lo psicologo Paul Watzlawich – che spesso diventa verità assoluta, senza arrivare mai veramente a capire che cosa è successo, con la convinzione che il mondo sia o bianco o nero e basti semplicemente distinguere tra vittime e carnefici e dare al colpevole designato una punizione esemplare, per risolvere e chiudere le questioni.
Un modo così netto mal si adatta alla scuola che è un di intreccio di relazioni e ha oggi un compito ben più ampio del semplice luogo dell’apprendimento. Nel film paradossalmente il colpevole non solo non è lo studente “diverso”, ma non è proprio uno studente. L’insegnante illuminata, protagonista del film, che ha un approccio moderno e vuole contenere i danni e gli eccessi sui suoi studenti, alla fine viene guardata con sospetto, quasi isolata, diventando il catalizzatore di tutte le responsabilità.
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