da patrizia mattioli | Ott 10, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Relazioni

Marco Bellavia si è ritirato dal Grande Fratello Vip perché non ce la faceva più a reggere la sofferenza di essere isolato e bullizzato dai compagni, per la sua fragilità emotiva.
Alla domanda del conduttore sul perché del loro atteggiamenti, alcuni inquilini della casa hanno risposto che pensavano che Marco fingesse e che la sofferenza facesse parte del personaggio. Altri si sono giustificati dicendo che non si capiva che soffrisse.
Molti di loro lo hanno evitato nei momenti di maggiore disagio.
Per mantenere il punto sui propri comportamenti ed evitare di mettersi in discussione, si può attribuire alla vittima la colpa delle proprie azioni, arrivando in casi estremi a privarla di qualità umane. La vittima non è più vista come una persona, ma come una minaccia che a quel punto è giusto isolare, maltrattare o addirittura eliminare. E’ quello che accade in guerra o più comunemente nelle relazioni conflittuali dove un partner è maltrattante e giustifica le proprie azioni con il modo di essere dell’altro, con le sue “colpe”.
La produzione del Grande Fratello ha subito espulso quelli che più direttamente hanno infierito contro Marco. La prossima puntata, ironia della sorte, va in onda lunedì 10 ottobre, data proclamata “giornata mondiale della salute mentale”.
Espulsioni e sanzioni certamente non miglioreranno l’immagine di un programma spesso criticato per i suoi contenuti. È possibile poi che la produzione stessa (autori, conduttore, vertici Mediaset), debba accertare le proprie responsabilità sulla violenza privata trasmessa. Molti telespettatori si sono infatti rivolti al Codaconsche ha presentato un esposto sul caso alla Procura della Repubblica.
Al di là di quanto sia giusto che accadano certe cose e che poi vadano in onda, la vicenda ci fa parlare di salute mentale. Qui il problema non è solo di Marco, ma di tutto il gruppo e attraverso il gruppo si può risolvere.
Non facciamo l’errore di credere che gli esseri umani si dividono in sani e malati e che il malato sia quello che dichiara di esserlo. Chi lavora con la sofferenza lo vede tutti i giorni: in una coppia che viene alla consultazione per esempio c’è spesso il partner etichettato come “più emotivo” perché esprime apertamente la sofferenza, ma non è detto che sia quello che soffre di più.
A livello sociale viene più apprezzato chi è “meno emotivo”, che viene in genere considerato più forte, salvo poi stupirsi quando le persone hanno reazioni ‘esplosive” giudicate inaspettate e imprevedibili.
La fragilità che si esprime attraverso le paure e le cadute dell’umore, non è poi così lontana da quella che si manifesta con la freddezza e l’aridità d’animo. Piaccia o meno, sono due facce della stessa medaglia nel senso che entrambe indicano un disequilibrio. Più si è distanti da se stessi e dalle proprie emozioni, più si cerca di allontanare e di allontanarsi da chi la sofferenza mentale la manifesta. Nessuno è mai così sicuro di come è dal punto di vista emotivo affettivo, perciò non è mai così sicuro di “non” avere un disturbo mentale, e chi dichiara di soffrirne rappresenta un pericolo.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Set 19, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano, Emozioni

40 anni di emoji per migliorare la comunicazione virtuale. Comunicare è quasi un’arte. Inviare messaggi che vengano interpretati da chi li riceve con il significato di chi li invia è un’impresa non da poco. Se il rischio di incomprensioni e fraintendimenti è insito in ogni comunicazione umana, è certamente più alto nella comunicazione testuale, dove la componente non verbale è quasi assente. Il piano non verbale con le espressioni del viso, il tono di voce, le pause e tutto il resto, trasmette infatti informazioni essenziali su come intendere il messaggio che si riceve. Per questo sono nate le forme grafiche e i simboli che utilizziamo nei messaggi online.
L’emoticon, l’antenata delle attuali faccine sorridenti, creata per caso da un docente di informatica con due caratteri speciali della tastiera :), compie 40 anni. Un lungo periodo in cui ha dimostrato la sua utilità nell’indicare il senso da dare a un contenuto, tanto da evolversi nelle sue forme più attuali: gli emoji, veri e propri pittogrammi di facce, oggetti, animali, simboli e tanto altro. Un supporto rilevante all’obiettivo di diminuire il più possibile i rischi di fraintendimenti nella messaggistica online, fatta appunto soprattutto di testo.
Mi è capitato recentemente di esprimere, in un messaggio (senza faccine), una perplessità a una collega su una sua proposta. La perplessità è stata interpretata come una contestazione personale e ha stimolato una reazione inaspettata che ci ha portato lontano dal tema oggetto del messaggio. Gli emoji non sempre raggiungono l’obiettivo ma magari avrebbero attenuano la lettura più personale.
Sappiamo che ogni essere umano, grazie a schemi operativi interni che matura a partire dalla nascita – in base allo stile di attaccamento e all’atmosfera familiare che sperimenta – ha un suo modo di interpretare le cose che gli accadono, un modo personale di ricavare dai messaggi a cui è esposto: chi è lui, come viene visto dagli altri, cosa può aspettarsi da loro.
In mancanza di informazioni precise da parte dell’interlocutore, ognuno tende automaticamente ad attribuire significati in base ai propri schemi, alle proprie aspettative e alle proprie convinzioni e prevenzioni più personali. E’ perciò molto facile incorrere nell’incomprensione, lo sperimentiamo quotidianamente, proprio nelle relazioni che consideriamo significative, quelle che ci coinvolgono di più, relazioni familiari, relazioni sentimentali, di amicizia…………
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Lug 4, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano

Per gli adolescenti di oggi la scuola non è un luogo sicuro in cui mettersi alla prova, crescere, imparare. Il 30% dei ragazzi vive infatti l’istituzione scolastica come luogo di insicurezza e disagio, spesso scenario di atti di violenza e bullismo.
E’ quello che emerge da una ricerca internazionale appena pubblicata su Frontiers in Psychiatry. Il gruppo di esperti guidato dall’Università di Turku in Finlandia ritiene che il problema assuma dimensioni globali e che uno dei motivi principali sia la fine del dialogo tra insegnanti e ragazzi.
Gli autori confermano con questa ricerca un concetto che chi lavora nella scuola – insegnanti, personale Ata, soprattutto psicologi scolastici – sa da sempre: quanto sia importante la scuola nello stimolare sentimenti di sicurezza e protezione negli studenti e quanto questi siano soprattutto veicolati dalle relazioni che vi si stabiliscono, in particolare dalla relazione tra studente e insegnante.
La famiglia ha il suo ruolo nella costruzione della personalità dello studente, su questo non c’è dubbio, è ampiamente dimostrata l’importanza della relazione con le figure di attaccamento, genitori o loro sostituti; ma dobbiamo considerare che la scuola è un luogo in cui si trascorre molto tempo e per forza di cose vi si costruiscono rapporti significativi e in grado di incidere sull’equilibrio o comunque sullo stato d’animo di uno studente.
La scuola ha il suo peso, in positivo e in negativo: e può indistintamente essere fonte di disagio o diventare una base sicura – e luogo in cui “rifugiarsi” se le relazioni in famiglia sono, più o meno temporaneamente, instabili – a seconda che si riesca o meno a costruire rapporti significativi positivi al suo interno.
Lo studente oggi fa più fatica a trovare a scuola un adulto di riferimento in grado di vederlo per quello che è, di riconoscerlo come essere umano nella sua unicità e confermarlo, perché l’insegnante è appesantito da troppe ingerenze e a volte anche da troppi studenti da seguire, complice anche la pandemia e la diversa modalità di fare scuola. Se la scuola dunque è un ambiente fondamentale per la tranquillità e il benessere personale dei suoi protagonisti, deve essere adeguato l’investimento che si fa su di essa, deve essere riconosciuto come un luogo in cui l’obiettivo non è soltanto didattico ma anche, anzi soprattutto, relazionale, formativo, educativo in generale.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Mag 30, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano

Il campionario delle paure infantili può contare su un nuovo personaggio mostruoso: il neonato Huggy Wuggy, pupazzo terrificante del primo capitolo del video-gioco horror Poppy’s Playtime. Egli è il risultato di crudeli esprimenti effettuati negli anni Ottanta in una fabbrica di giochi per bambini poi andata in rovina.
Animato da una coscienza umana deviata, Huggy Wuggy, personifica le paure e ha già traumatizzato molti bambini in tutto il mondo. Come è possibile? Ogni bambino ha la sua storia e la sua sensibilità alle cose che gli accadono. Il percorso di crescita è accompagnato da una serie di paure che vengono considerate fisiologiche, il prezzo da pagare per il graduale aumento dell’autonomia che corre parallelo alla preoccupazione per la propria sicurezza e per quella delle figure di riferimento.
Agli aspetti emotivo affettivi, si aggiungono altri elementi. Nella sua forma inanimata, Huggy Wuggy assomiglia al classico pupazzo di peluche che infonde calore, ma ha una testa mostruosa. Sembra un dolce orsacchiotto, ma ha denti affilati e cattive intenzioni. I due opposti aspetti rendono difficile al bambino più piccolo la lettura univoca del personaggio. Il pensiero infantile funziona ancora in modo concreto, cioè si basa soprattutto su fatti del mondo fisico (all’opposto del pensiero astratto). Egli non sa quale delle due parti privilegiare ed entra in crisi.
Nel videogame e nelle clip musicali presenti in rete, poi, Huggy Wuggy canta canzoncine dal ritmo piacevole e orecchiabile dove parla però di abbracci mortali. Il mostro sbuca all’improvviso e si avvicina velocemente allo schermo e all’osservatore. Sequenze veloci, in grado di suscitare un senso di minaccia che stona con la melodia della canzoncina.
Huggy Wuggy e il suo gioco sono stati concepiti per spaventare gli adulti e i bambini non dovrebbero vederlo ma, come ha sottolineato la polizia postale, purtroppo il materiale è presente in rete anche in luoghi accessibili ai più piccoli. Non basta il parental control per delimitare il raggio di navigazione dei più piccoli. E allora è importante che i genitori si attivino, che si informino sul gioco e il suo personaggio e lo spieghino ai bambini. Che insegnino loro come avvicinarsi al web e ai giochi online, e l’importanza del rispetto delle regole e dei divieti. Se il bambino entra comunque in contatto con visioni inadeguate alla sua età e sviluppa ansie e paure che influiscono sulla sua quotidianità, è importante che i genitori e comunque le persone che si prendono cura di lui lo aiutino a ridimensionarle. Nello stesso tempo però è importante che comprendano quali altri elementi contribuiscono, perché se le paure permangono e si irrigidiscono potrebbe non essere legato solo a visioni inadeguate.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Apr 26, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano

La perdita di un figlio è riconosciuto come il lutto più difficile da affrontare, in cime alla lista degli eventi più stressanti della vita
“La perdita di un figlio è il dolore più grande che un genitore possa provare”, scrive in una nota il calciatore Cristiano Ronaldo quando annuncia la morte, durante il parto, di uno dei due gemelli che aspettava con la compagna Georgina Rodriguez. Ed è proprio così: la perdita di un figlio è riconosciuto come il lutto più difficile da affrontare, in cime alla lista degli eventi più stressanti della vita. Non sarà di conforto per il calciatore, pensare che di figli ne ha già cinque e altri ne potrà avere ancora in futuro.
Il lutto perinatale (cioè quello per la morte di un figlio, che avviene nell’ultimo periodo di gravidanza o nella prima settimana di vita) è un lutto a tutti gli effetti, anche per un padre. E’ una sofferenza che chiede tempo per essere elaborata e l’attraversamento della tempesta emotiva che l’accompagna.
Il lutto perinatale è la perdita del progetto genitoriale. Il fallimento del proprio compito di accudimento e protezione, con sentimenti di incapacità come se ci fossero passaggi che non sono stati fatti e/o precauzioni che non sono state prese.
La decisione di avere figli oggi è, nella maggior parte dei casi, molto ragionata,all’interno di un progetto più ampio di famiglia, un passaggio importante della coppia. Molto vissuto nella corporeità della gravidanza per le madri e, parallelamente, più nella costruzione di una relazione affettiva graduale con il bambino per i padri. Oggi molto presenti alle visite mediche e alle ecografie e partecipi nell’ascolto del battito cardiaco e della vita che esso rappresenta.
Per entrambi i genitori, la perdita è un esperienza devastante e i vissuti emotivi sono simili, anche se diversi i modi di esprimerli e di affrontarli. Tradizionalmente il lutto maschile si esprime meno attraverso il pianto e la ricerca di conforto e più spesso in comportamenti di evasione, di fuga, dal vissuto stesso.
Un’emozione che tutti i genitori hanno in comune è il senso di colpa. Tutti si sentono in colpa. Un padre e una madre vivono il forte senso di responsabilità per la sicurezza e il benessere del figlio. Ogni difficoltà mette in discussione il loro operato. Per ogni difficoltà che il figlio affronta il genitore se ne attribuisce la responsabilità e la colpa: “cosa ho sbagliato?”, dove ho sbagliato?”. Ancora di più se un figlio si perde, qualsiasi sia la ragione della perdita, e il modo o il momento in cui essa avviene.
La perdita di un figlio inverte l’ordine naturale delle cose, devono essere i figli a seppellire i genitori, non viceversa, e se avviene il contrario, a tutte le colpe che un genitore si può attribuire, si aggiunge quella di essere ancora vivo. Quando muore un figlio, una parte dei genitori muore con lui.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Mar 12, 2022 | Blog su Il Fatto Quotidiano

Le drammatiche vicende internazionali hanno messo in secondo pianol’approvazione del bonus psicologico. Un provvedimento che si aspettava da tempo, che prevede lo stanziamento di milioni di euro da suddividere tra assunzioni nei servizi pubblici, reclutamento di psicologi, erogazione di voucher ai cittadini (con tetto max di 600 euro e reddito Isee inferiore a 50 mila euro), per l’accesso ai liberi professionisti.
Non sappiamo quanto l’approvazione del provvedimento sia da attribuire a un effettivo cambio di passo, cioè a un effettivo riconoscimento del disagio psicologico come diverso dalla malattia mentale, e che come tale necessiti di una risposta specificamente psicologica – riconoscendo da una parte la difficoltà del servizio pubblico di rispondere alle richieste e dall’altra il valore del lavoro privato e l’importanza dell’integrazione tra pubblico e privato – e quanto invece non sia la solita risposta estemporanea e parziale a un’emergenza di proporzioni inaspettate, che si estinguerà al venir meno dell’emergenza stessa. La storia indicherebbe più probabile la seconda. Ma magari stavolta no e questo è il primo di una serie di provvedimenti che porterà alla creazione di una psicologia di base accessibile a tutti, da affiancare alla medicina di base. Staremo a vedere.
Nel frattempo si aggiungono problemi ai problemi e, diminuita un’emergenza, se ne fa subito avanti un’altra, quasi come se l’uomo a questo punto della storia non sapesse come riprendere la sua strada e dovesse interporre ostacoli per guadagnare tempo. Solo un altro grande problema, come una guerra, può mettere in secondo piano il disorientamento di fronte alla prospettiva di tornare a una “normalità”. Le restrizioni sociali sono durate abbastanza da rendere difficile ricordarsi dove si era e dove si stava andando prima che tutto cominciasse.
La minaccia del Covid ma soprattutto le deprivazioni sociali che ne sono derivate hanno stimolato la sofferenza psicologica che in ognuno si è manifestata in modo diverso, amplificando sensibilità personali precedenti (questo vale evidentemente anche per i potenti). Al contrario, più facilmente in condizioni di sofferenza e deprivazione fisica, di pericolo concreto per la propria incolumità, la sofferenza psicologica si interrompe o si attenua.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano