da patrizia mattioli | Giu 11, 2013 | Identità personale, Relazioni
Cosa pesa nella scelta del partner?
Scegliere un partner piuttosto che un altro sembra legato a motivazioni misteriose. Ci si ritrova in situazioni curiose quando non faticose,: non si riesce a intraprendere o portare avanti un rapporto di coppia pur volendolo, o a interromperlo nonostante sia chiaro che si è avuto tutto ciò che quel rapporto poteva dare.
Il modo di stare con gli altri, lo stile di attaccamento di cui parla Bowlby, viene elaborato nel corso dello sviluppo all’interno delle relazioni con i genitori, i fratelli, i nonni, gli insegnanti, gli amici,. Esso tende a riproporsi nelle relazioni adulte, anche se non completamente.
Ci si avventura più volentieri in rapporti che hanno qualcosa di simile a quelli vissuti in passato perché tendono a confermare le idee che ci siamo costruiti di noi stessi e degli altri. Bowlby ha chiamato queste idee modelli operativi interni.
Relazioni molto positive dal punto di vista della comunicazione e del livello di intimità raggiunti possono farci correggere i nostri modelli operativi interni, – così per esempio un partner affettuoso e disponibile può modificare la convinzione di base che gli uomini, o le donne, non sono disponibili – o al contrario, esperienze dolorose o difficili possono mettere in crisi il positivo senso di identità costruito nelle relazioni con i propri genitori. In linea di massima però sono schemi che tendono a mantenersi nel tempo.
Lo stile di attaccamento sembra avere un ruolo sia nella fase iniziale della scelta del partner – insieme alle caratteristiche fisiche, alle affinità, ai valori), sia nel mantenimento della relazione.
L’attrazione sessuale è considerata in genere la componente più importante nelle fasi iniziali di una relazione, ma i rapporti che si basano prevalentemente su di essa tendono a durare poco. Se il rapporto continua è probabile che le componenti di cura e di attaccamento siano divenute importanti.
La possibilità di sperimentare in modo adeguato nuovi legami è strettamente legata alla capacità/possibilità di separarsi dai genitori. Chi ha sperimentato legami insicuri per esempio, in genere sviluppa scarse capacità di separarsi, tenderà quindi a mantenere un legame privilegiato con la famiglia di origine piuttosto che con il partner.
Ognuno di noi ha un particolare stile di attaccamento. Gli studi hanno evidenziato l’esistenza di diversi tipi di attaccamento. Si distingue tra attaccamento sicuro e insicuro., e l’attaccamento insicuro può essere evitante o ambivalente.
Nel rapporto di coppia lo stile di attaccamento insicuro evitante si manifesta nella paura di entrare in intimità con l’altra persona e nell’incapacità di dipendere affettivamente da lei, quello insicuro ambivalente nella scarsa fiducia sulla affidabilità del partner. Lo stile sicuro si manifesta al contrario nella capacità di entrare in intimità con il partner e di ricevere e offrire aiuto.
Individui che hanno sperimentato legami familiari sicuri tenderanno a scegliere partner con le stesse caratteristiche. Al contrario individui che hanno sperimentato rapporti familiari insicuri tenderanno a scegliere partner con caratteristiche complementari alle proprie: chi ha paura di entrare in intimità con l’altro sceglierà un partner che desidera un livello di intimità esagerato (e questo gli confermerà che é meglio non coinvolgersi troppo nei rapporti), chi ha poca fiducia nella disponibilità dell’altro, sceglierà partner che si concedono poco (e questo gli confermerà che gli altri sono poco affidabili).
Abbiamo detto che i soggetti sicuri sono in grado di ricevere e fornire cure, gli evitanti invece tendono ad essere autosufficienti e a non chiedere aiuto, tendono a cercare la vicinanza del partner quando questo non fa richieste dirette e se ne tengono a distanza quando questo fa richieste di intimità (per esempio durante una forte emozione o un importante bisogno). Gli ambivalenti invece avanzano molte richieste ma sono poco disponibili a fornire cure o se lo fanno, questo avviene in modo oppressivo che spesso non viene gradito dal partner.
In condizioni conflittuali i soggetti insicuri tendono a mettere in pratica atteggiamenti non costruttivi: dicendo cose che mettono a repentaglio la stabilità della relazione, affrontando ripetutamente il conflitto – nel caso di insicuri ambivalenti – o evitandolo – nel caso di insicuri evitanti – in un crescendo che può sfociare nella rottura del rapporto.
Sembra lecito pensare che gli insicuri, probabilmente per le maggiori esperienze di solitudine o instabilità affettiva vissute in passato, si mantengano in stato di allerta nel corso di un rapporto importante, per cui ogni segnale di scontentezza del partner viene interpretato come presagio di rottura della storia per cui preferiscono essere loro a provocarne la fine piuttosto che subirla passivamente.
Il tipo di legame che si stabilisce tra due partner condiziona la stabilità del rapporto anche se sia legami sicuri che legami insicuri possono durare nel tempo.
Anche una volta che il sentimento si è esaurito e i partner si sono separati, il legame può rimanere: per rendere meno dolorosa la separazione i due partner si mantengono in contatto anche se ognuno ha stabilito nuovi legami affettivi, per lo meno fino a che non si rendono conto di essere diventati molto diversi e di non avere più niente in comune. A volte il rapporto si è esaurito sul piano sentimentale, ma ancora un’importante funzione di sostegno della propria identità e può protrarsi più del dovuto fino a che ognuno non è riuscito a ricostruire quella parte di sè legata al rapporto esaurito.
da patrizia mattioli | Giu 3, 2013 | Identità personale, Relazioni
Innamoramento e amore
Formare legami di coppia stabili e riprodurre il proprio patrimonio genetico sono considerati traguardi importanti dello sviluppo.
Anche se non tutti scegliamo di vivere in coppia o di avere figli, tutti sentiamo l’impulso di innamorarci e costruire un rapporto esclusivo con un partner.
L’innamoramento lo sappiamo, è quello stato tipico della fase iniziale di un rapporto di coppia, in cui prevale l’irrazionalità, la fusione, la cecità affettiva e l’altro rappresenta tutto il mondo. Si vede in se stessi e in lui/lei solo quegli aspetti che permettono di operare un’idealizzazione cioè un’esclusione dalla consapevolezza di caratteristiche personali e altrui giudicate negative.
I primi innamoramenti brevi e poco coinvolgenti appartengono di solito all’adolescenza, e rappresentano un’esplorazione della propria capacità di provare ed esprimere sentimenti d’affetto. Un rifiuto rappresenta una disconferma ed è fonte di angoscia e dolore.
La prima delusione è in genere molto dolorosa non tanto per l’intensità del sentimento provato quanto perché, alle prime esperienze, non si hanno i mezzi per capire i motivi del fallimento e si attribuisce facilmente la causa a qualche difetto personale, fisico o caratteriale, mentre nella maggior parte dei casi la ragione è legata al vivere tempi psicologici diversi: uno dei due è pronto per un legame e l’altro no, uno si immagina un rapporto stabile e l’altro no, oppure si ritrovano vicini due ragazzi che non hanno niente in comune al di là del desiderio di sperimentare l’amore.
Anche più avanti, con più esperienze alle spalle e maggiori capacità di relazione, un rapporto che si chiude provoca molta sofferenza dal momento che chiama in causa non soltanto un sentimento, ma la base del proprio sentirci vivi quale è il senso di identità personale.
Alla fase irrazionale dell’innamoramento segue una fase più pacata di amore in cui il legame è più intimo e si possono tollerare periodi più lunghi di distacco. La maggiore intimità (intesa come scambio reciproco di informazioni importanti su di se come emozioni, paure, bisogni, ecc), oltre ad arricchire la comunicazione e l’espressione della propria sessualità, è la condizione per non sentirsi soli.
L’amore più che un sentimento è un processo e come tale è più basato sulla condivisione di progetti che sulla forte attrazione caratteristica della fase iniziale. Se la fase dell’innamoramento non è seguita dalla fase più pacata della condivisione di affetti, sensazioni e scopi (che in una coppia adulta possono andare dalla decisione di comprarsi casa a quella di avere figli) il forte interesse provato per l’altra persona svanisce rapidamente lasciando soltanto un grande senso di vuoto.
Chi ha paura di mettere a nudo una parte di sé, di dipendere affettivamente dall’altro, di confondersi con l’altro, avrà difficoltà ad entrare nella fase più matura e i suoi rapporti sentimentali saranno caratterizzati dal susseguirsi di innamoramenti che si esauriscono velocemente.
Conoscere meglio il partner comporta la fine dell’idealizzazione e la presa di consapevolezza delle cose che si hanno in comune: se le differenze superano le affinità, se è possibile continuare o è meglio interrompere il rapporto, soprattutto se si possono raggiungere obiettivi condivisi. E’ stato stimato che la fase di attrazione tra due partner dura più o meno dai due ai tre anni e questo probabilmente spiega perché vi sia una prevalenza di interruzioni nei rapporti di coppia intorno al quarto anno.
da patrizia mattioli | Dic 4, 2012 | Identità personale
La Tomba dei lottatori . Renè Magritte
Che cos’è?
L’autostima è la valutazione positiva o negativa che un individuo può fare di se stesso, il giudizio sistematico e approfondito delle proprie caratteristiche e competenze personali. Il livello di autostima è influenzato, anche se non sempre, dai successi o dagli insuccessi nel raggiungimento di obiettivi importanti nella vita, soprattutto quando i successi o gli insuccessi sono valutati dalla persona come dipendenti da sue caratteristiche interne.
L’autovalutazione può comportare degli errori sia come sopravvalutazioni che come sottovalutazioni delle caratteristiche personali.
L’autostima si abbassa per esempio durante gli stati di depressione dato che in quei momenti l’individuo tende a disprezzarsi e svalutarsi e aumenta invece negli stati di euforia, momenti in cui l’individuo tende a sopravvalutarsi.
Nell’autovalutazione l’oscillazione è tra due bisogni: quello di conoscersi e prendere atto delle proprie reali caratteristiche e potenzialità, e quello di piacersi cioè di sapere che si è competenti, intelligenti, buoni, bravi….Questi due bisogni possono anche non essere in armonia.
Il bisogno di conoscersi è condizionato dalle idee che già abbiamo di noi stessi. Dal momento che la nostra mente è attiva e selettiva, prestiamo maggiore attenzione a ciò che conferma quello che già pensiamo di noi sia in senso positivo che negativo: chi pensa di non essere attraente darà più importanza alle informazioni che gli confermano questa opinione e tenderà a trascurare tutte le altre, oppure chi pensa di essere intelligente troverà più facilmente argomenti che gli confermano questo dato piuttosto che il contrario. Circondarsi di persone che confermano l’opinione che abbiamo di noi stessi (anche se negativa) aiuta ulteriormene a mantenere una certa stabilità nel livello di autostima.
Una buona autostima serve a volersi più bene e ad avere più fiducia in se stessi.
Sentire compromessa o in pericolo la propria immagine sociale o la propria autostima provoca vergogna. Anche altre emozioni sgradevoli come l’ansia o il senso di colpa possono essere legate all’abbassamento del livello dell’autostima. Un basso livello di autostima è perciò fonte di sofferenza e comporta una minore fiducia in se stessi, per questo utilizziamo molte strategie per mantenere l’autostima a un livello accettabile e stabile.
Tanto per cominciare cerchiamo di selezionare le aree in cui valutarci positivamente, non è infatti importante che una valutazione sia molto positiva o molto negativa per intaccare il nostro livello di autostima, quanto che avvenga in un settore in cui consideriamo molto importante riuscire. La selezione avviene ovviamente secondo criteri che ci favoriscono: cerchiamo innanzitutto di valutare realisticamente quali sono i nostri potenziali punti di forza (l’attività sportiva, lo studio, l’aspetto fisico,…..) e poi li consideriamo importanti. Questa strategia è limitata dal fatto che molte aree di importanza vengono stabilite precocemente all’interno delle proprie relazioni significative quando ancora non siamo in grado di valutare se abbiamo quelle specifiche competenze (prendiamo l’esempio di una famiglia in cui i genitori hanno il mito della cultura e il figlio invece sembra più portato per l’attività fisica o viceversa).
Una seconda strategia consiste nel selezionare più o meno consapevolmente quelle informazioni o quei ricordi che forniscono valutazioni positive: fare attenzione agli elogi degli altri e non alle critiche, ricordarsi le cose andate bene e non quelle andate male.
Una terza strategia è quella per cui tendiamo ad attribuirci la responsabilità dei successi e a scaricare sugli altri quella degli insuccessi. Quando questo non è proprio possibile e l’insuccesso è indubitabilmente dovuto a noi, ci giustifichiamo con noi stessi facendo riferimento a fattori contingenti come la stanchezza, lo scarso impegno o la mancanza di concentrazione, piuttosto che a fattori di base come la capacità o l’intelligenza.
A volte la strategia è addirittura preventiva e costruiamo le condizioni che non favoriscono il successo (non aprendo libro per esempio pur sapendo che sarò interrogato), in modo da poter far risalire a quelle la causa dell’insuccesso e non alla nostra capacità o intelligenza cosa che invece influirebbe sul livello di autostima (se per esempio mi impegno molto nello studio e nonostante ciò l’interrogazione va male mi devo quanto meno chiedere se non sono per caso un incapace).
Si potrebbe obiettare che le strategie non valgono per chi tende a mettere in pratica manovre contrarie per esempio dare più peso alle critiche che non alle lodi, oppure sopravvalutare i propri difetti più che i propri pregi e via dicendo. In questi casi vale anche il discorso della stabilità. Chi tende alla bassa autostima cerca di difenderla al pari di chi tende ad una alta autostima sia perché questo permette di mantenere più stabile il proprio senso di identità, sia perché avere una bassa autostima è meglio che avere un’autostima incerta o rischiare di mettere a repentaglio anche quella. I dati che smentiscono la bassa autostima creano in effetti disagio perché inducono la persona che si stima poco a farsi illusioni su di sé e quindi a rischiare la delusione. E’ meglio mantenersi su un livello di autostima bassa ma stabile, piuttosto che oscillare tra illusioni e delusioni.
Queste sono le strategie più comunemente usate per mantenere un livello di autostima accettabile e il più possibile stabile. Resta da capire come mai le persone hanno un’autostima bassa o alta.
Il livello di autostima è in effetti il risultato del rapporto tra la valutazione che facciamo di noi e le aspirazioni che abbiamo cioè del rapporto tra come siamo e come vorremmo essere, più i due aspetti sono distanti e più il livello di autostima è basso.
Anche qui le relazioni con le nostre figure di attaccamento hanno un ruolo nell’indirizzarci verso la costruzione di un’autostima bassa o alta .
Il modo in cui i genitori valutano il figlio sarà il modo con cui comincerà a valutarsi da solo e se saranno troppo severi e poco disponibili, si convincerà di non essere all’altezza della situazione e di doversi guadagnare la valutazione positiva degli altri per sentirsi accettato.
La tendenza all’alta autostima è piuttosto legata ad esperienze precoci positive con genitori affettuosi e rassicuranti che hanno fiducia nelle capacità del figlio e lo manifestano affidandogli le responsabilità che in base all’età il bambino è in grado di sostenere riconoscendone comunque insuccessi ed errori,.
Anche le prime esperienze sociali hanno un peso nel rafforzare la tendenza all’autovalutazione positiva o negativa. Le aspettative degli insegnanti per esempio influenzano le prestazioni dello studente e la sua fiducia in se stesso, ma anche il gruppo-classe può avere un ruolo: iniziare le elementari con un anno di anticipo per esempio significa trovarsi in classe con bambini più grandi anche se solo di pochi mesi. Quei pochi mesi possono significare per esempio non riuscire a comprendere subito concetti che invece vengono compresi dagli altri, oppure più avanti sviluppare in ritardo rispetto agli altri questo può stimolare sentimenti di inferiorità o quanto meno la sensazione di essere più lento degli altri. Trovarsi in classe con bambini più piccoli può avere effetti opposti.
Il livello di autostima non è una cosa data una volta per tutte ma può aumentare o diminuire continuamente. Il suo grado di stabilità è dato soprattutto dall’importanza che viene data ai singoli eventi. Chi mette in discussione la propria autostima ogni volta che ha un successo o un fallimento, avrà un livello di autostima abbastanza fluttuante coerentemente con le cose che gli accadono. Se invece un successo o un fallimento vengono considerati in maniera circoscritta, il livello di autostima si manterrà più stabile e non sarà sufficiente un singolo evento positivo o negativo per innalzarla o abbassarla.
La tendenza a utilizzare l’una o l’altra di queste strategie è legata alla storia individuale. Chi non ha potuto farsi un’idea realistica delle proprie caratteristiche personali sarà più dipendente dal contesto e dall’esperienza del momento e avrà un livello di autostima sempre abbastanza instabile.
Il benessere psicologico è legato ad un buon livello di autostima generale (la sensazione generale di valere come persona), mentre il successo è più legato all’autovalutazione positiva in un’area specifica ( amore, lavoro, sport,…), i due aspetti possono coesistere ma possono anche essere indipendenti: una persona può avere molto successo per esempio nel lavoro e avere una bassa autostima generale quindi essere ugualmente insoddisfatto di sé o viceversa avere un successo mediocre e stimarsi invece molto.
Un’alta autostima sembra migliore di una bassa autostima, purché sia realistica altrimenti espone ad un alto rischio di fallimenti.
L’opinione degli altri ovvero la stima, ha naturalmente il suo peso. La stima e l’autostima possono non coincidere e noi potremmo valutarci diversamente da come ci valutano gli altri.
da patrizia mattioli | Nov 26, 2012 | Identità personale
Come si costruisce l’identità personale?
Un aspetto importante nel percorso di costruzione dell’identità personale è costituito dai processi di identificazione.
L’identificazione è in generale, un processo attraverso il quale si acquisiscono ruoli sociali assumendo i tratti del comportamento delle persone che si ammirano. Attraverso l’identificazione possiamo aumentare la nostra autostima comportandoci come se fossimo la persona con cui ci identifichiamo.
I modelli che vengono scelti sono quelli che ci sembra abbiano più successo nel raggiungere i loro scopi.
Durante lo sviluppo, attraverso i processi di identificazione il bambino imita a modo suo gli atteggiamenti dei genitori e questa interpretazione personale diventa una parte di sé.
I processi di identificazione si verificano in modo diverso ed hanno un peso diverso nelle varie fasi dello sviluppo.
Nella primissima infanzia è la qualità del rapporto con i genitori (o con i loro sostituti) ad avere rilevanza. La relazione genitore-figlio può essere considerata la base per lo sviluppo dell’identità e dell’atteggiamento verso se stessi, come anche del comportamento sociale e dell’atteggiamento verso il mondo esterno. Da bambini si impara a conoscere un mondo così come lo propongono i genitori e rimarrà l’unico mondo possibile per lungo tempo. Si dovrà aspettare l’adolescenza per cominciare a considerare anche altri aspetti della realtà.
Nei primi due anni di vita, a partire da certe predisposizioni genetiche che ereditiamo dai nostri genitori, gettiamo le fondamenta di quello che si svilupperà come il nostro senso di identità a partire dalla distinzione tra noi e gli altri.
Attraverso l’atteggiamento di cura, protezione e accettazione incondizionata dei nostri genitori, cominciamo ad avere un’idea di quello che siamo e di cosa ci possiamo aspettare dal mondo e dalle persone. Se possiamo contare su un buon attaccamento ci percepiamo amabili e competenti e percepiamo gli altri come disponibili e affidabili, e poiché la nostra mente non si limita ad una registrazione passiva delle cose che ci capitano ma è attiva e selettiva, tenderemo a prestare maggiore attenzione, crescendo, a quelle esperienze che confermeranno la nostra amabilità e competenza e la affidabilità degli altri, le quali rafforzeranno la nostra percezione di base e così via.
Al contrario in un attaccamento instabile ci percepiamo come non amabili e incapaci e percepiamo gli altri come inaffidabili e daremo risalto alle esperienze che confermeranno queste percezioni.
La stessa cosa vale per l’autonomia. Il percorso verso l’autonomia, che corre parallelo a quello dello sviluppo, si manifesta attraverso esplorazioni autonome che portano ad allontanarsi inizialmente per brevi momenti dai genitori. La loro approvazione e la loro disponibilità a fornire una base sicura durante questi momenti favoriranno il personale senso di sicurezza e di autonomia e stimoleranno ulteriori esplorazioni.
Alla fine dell’infanzia noi avremo elaborato una serie di schemi mentali stabili, inconsapevoli, su chi siamo noi e come sono gli altri, che influiranno sul nostro successivo sviluppo psicologico.
Durante l’età prescolare e nella fanciullezza i processi di identificazione avvengono sulla base della presenza concreta del genitore (o dei genitori) e aiutano il bambino a riconoscere le proprie emozioni, il proprio punto di vista e le proprie caratteristiche (è alto o basso, biondo o bruno, agile o impacciato, più portato per l’aritmetica che per l’italiano, etc…).
All’inizio della fanciullezza è acquisita in modo articolato e stabile una parte importante dell’identità: l‘identità di genere (maschile o femminile). Uno dei due genitori (di solito quello dello stesso sesso), viene scelto come oggetto di identificazione e viene assunto come modello principale per il comportamento, per il modo di pensare, di sentire e per gli atteggiamenti da assumere. Una adeguata identificazione con il genitore dello stesso sesso favorisce lo sviluppo di quei tratti di mascolinità o femminilità che caratterizzano la nostra identità personale. Una buona immagine di sé verso la fine della fanciullezza è legata alla qualità della relazione con il genitore dello stesso sesso.
Con il genitore di sesso opposto invece sviluppiamo la consapevolezza della nostra amabilità in quanto maschi (o femmine) e le abilità per interagire con le persone dell’altro sesso. Chi ha difficoltà ad entrare in rapporto con l’altro sesso, spesso non ha avuto un buon rapporto con il genitore di sesso opposto.
Durante l’adolescenza e la prima giovinezza, i processi di identificazione sono sempre meno legati alla presenza fisica dei genitori, poiché lo sviluppo della capacità di astrazione rende possibile l’interiorizzazione dei valori morali e delle regole di vita di tali figure.
La capacità di astrazione è la capacità di andare oltre i fatti concreti elaborando ipotesi e teorie sulla realtà al di là di quella che viene vissuta personalmente.
Questa capacità dà un nuovo significato alla dimensione del tempo: si prende consapevolezza di avere un passato e soprattutto ci si rende conto di avere un futuro (cosa che non era possibile nelle fasi precedenti se non per un futuro molto prossimo).
Rendersi conto che la realtà può avere diverse sfaccettature, porta ad una visione più relativistica di quello che la realtà è.
I genitori, che durante l’infanzia e la fanciullezza erano considerati come depositari di verità e valori assoluti, ora vengono considerati come persone comuni (relativizzati appunto), con le insicurezze e i problemi che caratterizzano la vita di tutti e quindi anche meno essenziali per la conferma della propria identità, conferma che comincia a essere ricercata nei rapporti extrafamiliari. Durante l’adolescenza si passa gradualmente da uno stato in cui l’aiuto, la guida, il sostegno, l’approvazione e la rassicurazione provengono dai genitori (dipendenza), a uno stato intermedio in cui il sostegno e l’approvazione provengono dalle amicizie, dai rapporti sentimentali, dai rapporti con altri adulti, per arrivare allo stato in cui si è in grado di pensare, valutare, fare scelte, prendere decisioni, seguendo il proprio punto di vista, senza grossi incoraggiamenti esterni (autonomia).
Durante questo percorso si susseguono vari stati emotivi: la rabbia (nei confronti dei genitori per la scoperta dei loro limiti), la colpa (per l’allontanamento da loro), il senso di indipendenza (dopo aver ritrovato un equilibrio) e tutto avverrà tanto meno dolorosamente, quanto più stabile e sicuro sarà stato l’attaccamento. Una buona relazione di attaccamento permette un adeguato processo di identificazione che a sua volta consente un adeguato distacco emotivo dai genitori, perché l’identificazione stessa contribuisce a mantenere il senso di continuità e unicità personale durante il processo di separazione che si conclude generalmente intorno ai venticinque anni. Se si prolunga oltre questa età, la personalità dell’individuo sarà maggiormente caratterizzata da tratti infantili.
Non è durante l’adolescenza che si costruisce un senso di identità, anche se i cambiamenti che avvengono in questo periodo (sul piano cognitivo, psicosessuale e affettivo), sono piuttosto ampi e a vari livelli come forse non accadrà in nessun altro periodo della vita.
Mentre durante lo sviluppo, il rapporto con le figure di attaccamento influenza direttamente la costruzione della propria identità personale, dall’adolescenza in poi i nuovi legami affettivi che si stabiliscono (prevalentemente quelli che risultano stabili nel tempo e in cui si raggiunge una certa intimità emotiva), tendono piuttosto a confermare, consolidare e allargare quanto è stato costruito.L’interruzione di un rapporto sentimentale o di una profonda amicizia per esempio, possono provocare un doloroso cambiamento nel senso di identità personale che termina solo quando l’individuo si è adattato alla nuova situazione.
Anche una volta raggiunta la maturità adulta, il sentimento della propria identità personale rimane legato al rapporto con gli altri: identificarsi con gli altri e rendersi conto di essere diversi da loro rimane la condizione essenziale. Gli atteggiamenti, le emozioni, i comportamenti che riconosciamo in noi stessi ci aiutano a conoscere e capire gli altri e viceversa gli aspetti che riconosciamo negli altri ci aiutano a capire e conoscere noi stessi.
da patrizia mattioli | Nov 12, 2012 | Identità personale
Che cos’è l’identità personale?
L’identità personale è tutto ciò che noi siamo, le nostre caratteristiche fisiche, psicologiche, culturali a partire dal nome e dalla data di nascita. E’ l’espressione del rapporto tra una serie di aspetti personali: il modo di ragionare, di affrontare i problemi, di comunicare con gli altri, gli interessi, le abilità, l’atteggiamento verso il mondo esterno, i rapporti affettivi con le persone o con i luoghi, il modo di porsi nei confronti degli altri, i progetti per il futuro. Tutto questo ci rende unici e inconfondibili agli occhi degli altri e ci dà un senso di definizione, appartenenza e continuità nel tempo che ci permette di dire ogni giorno: “questo sono io”, riconosco me stesso come lo stesso di sempre anche di fronte a cambiamenti importanti.
L’identità personale si costruisce. Il processo di costruzione comincia alla nascita, si svolge prevalentemente nel rapporto con gli altri e non si ferma al raggiungimento dell’età adulta, ma prosegue per tutta la vita. Per tutta la vita aggiungiamo, togliamo o modifichiamo qualità, tratti, interessi, capacità nella nostra identità. Molte delle cose che facciamo quotidianamente vanno a rafforzare o indebolire il nostro senso di identità.
Alcuni aspetti dell’identità personale sono abbastanza evidenti, come per esempio il sesso, la nazionalità, il ceto sociale (e su questi di solito non esistono grosse incertezze), altri che lo sono meno, come le caratteristiche psicologiche che sono di solito anche quelle che ci preoccupano di più perché non abbiamo mai un’idea precisa di come siamo. Ci chiediamo continuamente se siamo intelligenti o stupidi, coraggiosi o vigliacchi.
Un senso di identità personale abbastanza definito (in cui cioè l’individuo è abbastanza consapevole delle proprie caratteristiche) e stabile, permette di percepirsi e valutarsi in modo costante nel tempo. Questo aspetto è di fondamentale importanza dal momento che ogni essere umano si trova ad affrontare nel corso della vita situazioni esterne imprevedibili e in continua trasformazione.
Il mantenimento dell’identità personale è dunque importante e vitale: un individuo che sente instabile il suo senso di identità personale, non è più in grado di funzionare adeguatamente e perde il senso del rapporto con la realtà. Un senso di identità stabile è la condizione essenziale per sentirsi vivi.
Bruschi cambiamenti nella vita come un matrimonio, la nascita di un figlio, un lutto o anche una vincita miliardaria ad una lotteria possono modificare profondamente l’immagine che una persona ha di se stessa e causare un senso di disagio e disorientamento fino a che non si ambienta nella nuova situazione di vita e nella nuova identità.
La solidità dell’immagine (positiva o negativa) che abbiamo di noi stessi è un bisogno umano allo stesso modo in cui lo sono il bisogno di sopravvivenza e di riproduzione. Dobbiamo continuamente avere la sensazione di essere qualcuno.
Un senso di identità fragile può avere origine dalle ripetute esperienze di disagio che hanno caratterizzato la storia dell’individuo, oppure da esperienze recenti e dolorose, per esempio un senso di identità negativa successiva alla chiusura di un rapporto affettivo, o alla perdita improvvisa del posto di lavoro.
Il senso di identità è molto legato ai luoghi che fanno parte della nostra quotidianità, luoghi in cui noi abbiamo la sensazione di avere un ruolo: la nostra casa con i nostri familiari, la nostra scuola con i nostri compagni e i nostri insegnanti, il nostro lavoro con i nostri colleghi e i nostri superiori, i nostri hobbies, il nostro quartiere, la nostra città. Se improvvisamente ci trovassimo contro la nostra volontà in un ambiente diverso, con persone sconosciute, senza i nostri effetti personali, senza poter mantenere il nostro ruolo e le nostre abitudini, proveremmo una forte oscillazione nel nostro senso di identità, con un forte senso di vuoto e un’incertezza fondamentale su chi siamo. E’ quello che succede per esempio agli immigrati o a chi si è trovato in carcere per sbaglio e inaspettatamente.
La forza del senso di identità è anche in relazione alla quantità di esperienze che abbiamo maturato e alla consapevolezza che abbiamo di queste.
Un’identità negativa sembra migliore di una vaga identità.
da patrizia mattioli | Set 24, 2012 | Identità personale
Se non si trova o si perde il lavoro è meglio dare la colpa a cause esterne o attribuirsene la responsabilità?
Il lavoro è uno dei fondamenti dell’equilibrio psichico personale.
Avere un lavoro stabile, signifca avere delle sicurezze, poter costruire un progetto: una famiglia una casa. Significa poter produrre scenari per il futuro.
Perdere il lavoro o non riuscire a trovarlo genera insicurezze ben al di là delle difficoltà economiche. Sul piano psicologico va a minare le fondamenta del proprio senso di sè, della propria identità personale.
Chi non riesce a trovare lavoro, non ha la possibilità di mettersi alla prova, non è in grado di costruire un senso di sè più articolato rispetto alle proprie capacità personali, ha difficoltà a vedere il proprio futuro.
Per chi il lavoro lo perde e non riesce a ricostruire una dimensione lavorativa entro breve, il futuro si ferma. Anche se ha costriuito nel tempo una solida identità professionale, corre lo stesso rischio di chi non ha mai lavorato: entrare nel dubbio fondamentale rispetto a se stesso e alle proprie competenze: di essere/non essere più capace di lavorare, di essere/non essere più utile alla società, alla famiglia, di non avere più un senso e un ruolo,. E’ una situazione che si verifica qualche volta anche dopo il pensionamento, soprattutto se è anticipato e viene subìto o se non si sono costruite alternative al lavoro prima di andare in pensione.
Il senso di sè di chi è, o è diventato disoccupato, non è o non è più sostenuto dalle relazioni esterne (dai colleghi, dal capo, dall’esercizio delle proprie mansioni)). Quindi manca di tutta una serie di conferme esterne, con conseguenze sul piano emotivo/affettivo.
E’ importante cogliere il vissuto negativo che ne può derivare, in termini costruttivi,come spinta a fare e non al contrario.
Fa la differenza come ci si spiega quello che accade.
Chi lo attribuisce a se stesso, a qualche propria mancanza o inadeguatezza (“non lavoro perchè sono un incapace, …perchè non sono abbastanza bravo,…”), mette in discussione se stesso e mantiene stabile il mondo’esterno. Magari tende a chiudersi, a limitare i contatti con gli altri anche per le difficoltà economiche. L’isolamento può essere un importante momento di recupero.
Attribuirsi le responsabilità rappresenta anche un tentativo di riprendere il controllo della situazione: significa implicitamente riconoscersi la possibilità di cambiare di trovare una soluzione: “se lo si è generato, lo si può risolvere”purchè si preveda di poter migliorare la propria presunta mancanza.
Per chi lo attribuisce all’esterno (“non lavoro perchè non mi viene data la possibilità,..perchè non mi viene riconosciuto il diritto,…, perchè non ci sono opportunità,..”)), il proprio senso di competenza personale non ne risulta toccato, ma si perde il senso di poter influire sugli eventi- Possono prevalere sentimenti di impotenza o di ingiustizia. Anche questo atteggiamento però può essere considerato come tentativo di riprendere il controllo. Se la responsabilità è del mondo esterno, basta cambiare contesto per recuperare.
Attribuzioni totalmente interne o totalmente esterne non sono in grado di spiegare adeguatamente un fenomeno che è evidentemente il risultato della complessa interazione tra i due modi di vedere le cose.
In ultima analisi però attribuire responsabilità a sè o agli altri non ha importanza, purchè si colga l’aspetto generativo di entrambi gli atteggiamenti.