Dal Covid alla guerra, come affrontare la sofferenza psicologica

Dal Covid alla guerra, come affrontare la sofferenza psicologica

 

Le drammatiche vicende internazionali hanno messo in secondo pianol’approvazione del bonus psicologico. Un provvedimento che si aspettava da tempo, che prevede lo stanziamento di milioni di euro da suddividere tra assunzioni nei servizi pubblici, reclutamento di psicologi, erogazione di voucher ai cittadini (con tetto max di 600 euro e reddito Isee inferiore a 50 mila euro), per l’accesso ai liberi professionisti.

Non sappiamo quanto l’approvazione del provvedimento sia da attribuire a un effettivo cambio di passo, cioè a un effettivo riconoscimento del disagio psicologico come diverso dalla malattia mentale, e che come tale necessiti di una risposta specificamente psicologica – riconoscendo da una parte la difficoltà del servizio pubblico di rispondere alle richieste e dall’altra il valore del lavoro privato e l’importanza dell’integrazione tra pubblico e privato – e quanto invece non sia la solita risposta estemporanea e parziale a un’emergenza di proporzioni inaspettate, che si estinguerà al venir meno dell’emergenza stessa. La storia indicherebbe più probabile la seconda. Ma magari stavolta no e questo è il primo di una serie di provvedimenti che porterà alla creazione di una psicologia di base accessibile a tutti, da affiancare alla medicina di base. Staremo a vedere.

Nel frattempo si aggiungono problemi ai problemi e, diminuita un’emergenza, se ne fa subito avanti un’altra, quasi come se l’uomo a questo punto della storia non sapesse come riprendere la sua strada e dovesse interporre ostacoli per guadagnare tempo. Solo un altro grande problema, come una guerra, può mettere in secondo piano il disorientamento di fronte alla prospettiva di tornare a una “normalità”. Le restrizioni sociali sono durate abbastanza da rendere difficile ricordarsi dove si era e dove si stava andando prima che tutto cominciasse.

La minaccia del Covid ma soprattutto le deprivazioni sociali che ne sono derivate hanno stimolato la sofferenza psicologica che in ognuno si è manifestata in modo diverso, amplificando sensibilità personali precedenti (questo vale evidentemente anche per i potenti). Al contrario, più facilmente in condizioni di sofferenza e deprivazione fisica, di pericolo concreto per la propria incolumità, la sofferenza psicologica si interrompe o si attenua.

leggi tutto il post su  Il Fatto Quotidiano

 

Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero della Solitudine

Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero della Solitudine

Anche l’Italia dovrebbe avere un ministero che renda la solitudine una funzione statale e preveda l’offerta di servizi pubblici ai reduci del distanziamento sociale.

In alcuni paesi del mondo esiste il Ministero della Solitudine.

In Giappone, visto il significativo aumento di suicidi e tentativi di suicidio nell’ultimo anno in seguito alle restrizioni imposte per il Covid-19, è stato istituito un ministero (e un ministro) della solitudine. Il Regno Unito ne ha uno già da qualche anno.

Il ministro giapponese della solitudine, ha un obiettivo ambizioso: porre fine all’isolamento degli individui e proteggere i legami fra le persone.

Noi potremmo aggiungerne un altro: trasformare la solitudine in risorsa, insegnando alle persone a utilizzare la sofferenza come motore di cambiamento.

Il nostro ministero potrebbe avere tanti dipartimenti quante sono le solitudini, perché ognuno ha la sua solitudine, un personale modo di viverla ed esprimerla, anche se tutti stanno a rappresentare l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di percepire un senso di estraneità e non appartenenza, un senso di non condivisione.

Sono stati d’animo che non si ha piacere di vivere, che si cerca spesso di allontanare. Da qui la paura della solitudine, la paura di ritrovarsi da soli con se stessi, con le proprie emozioni, e la difficoltà di stabilire un dialogo interiore, la difficoltà di incontrarsi.

La solitudine è uno stato d’animo che può riguardare tutti in qualche momento della vita. E’ una grande sofferenza e nello stesso tempo una grande risorsa. Ritirarsi in solitudine, chiudersi in se stessi, è un modo fisiologico di rigenerarsi.

Il distanziamento sociale, poiché imposto, ha reso più difficile percepire la solitudine come risorsa. 

Il distanziamento sociale ha portato a solitudini forzate o per l’obbligo di isolamento o per eccesso di vicinanza, sì perché anche la vicinanza eccessiva può stimolare solitudine. La coppia e la famiglia sono i luoghi in cui si sperimentano i più forti sentimenti di solitudine. Sentirsi incompresi dal partner o dai genitori, è tra le sensazioni più difficili da sopportare. A volte presenze “assenti”, fanno sentire profondamente soli.

leggi tutto il post su ll Fatto Quotidiano

In queste feste, per compensare le restrizioni natalizie, diamo spazio alla condivisione dei sentimenti per affrontare la sofferenza

In queste feste, per compensare le restrizioni natalizie, diamo spazio alla condivisione dei sentimenti per affrontare la sofferenza


Le nuove restrizioni natalizie generano una comprensibile insofferenza: ulteriore deprivazione sociale e affettiva nel momento in cui ci si prefigurava tutt’altro. E’ difficile contrastare la naturale spinta alla socialità, di più se non ci si è fatti ancora una ragione interna, personale, dei motivi per cui si dovrebbe evitarla.

E’ stato detto da più parti che siamo in guerra, con un nemico invisibile. Tanto invisibile che ci vuole quasi un atto di fede. Se il Coronavirus fosse un aereo nemico pronto a lanciare i suoi ordigni, non ci sarebbe bisogno di restrizioni imposte da altri, ma verrebbe naturale tutelarsi e proteggere i propri cari.

Se sapessimo che c’è il rischio che parenti e amici che vengono a trovarci o che andiamo a trovare mettano involontariamente il nemico sulle nostre tracce (o che possiamo farlo noi), ci verrebbe più istintivo essere guardinghi. La difficoltà di farsi una ragione interna del rischio è il primo ostacolo da superare, soprattutto se non si ha avuto finora esperienza diretta con il Covid.

Come ho già scritto più volte, la pandemia non l’abbiamo scelta, ma dobbiamo attraversarla e superarla al meglio, anche in nome di chi se ne è andato, perciò lasciamo defluire l’insofferenza e tutti i sentimenti negativi che l’accompagnano, e proviamo a prendere il buono che questo momento ci può offrire. Non è molto, forse, ma c’è.

Sforziamoci di ricordare tutte le cose che ci sono sempre state strette delle festività e sorridiamo sul fatto che quest’anno potremo finalmente evitarle. E sforziamoci soprattutto di sostituire i momenti di vicinanza fisica concreta con altrettanti momenti di vicinanza emotiva e affettiva.

leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano

Coronavirus, i giovani sono i più fragili: occorre proiettarli verso il futuro

Coronavirus, i giovani sono i più fragili: occorre proiettarli verso il futuro

Le restrizioni attuali riattivano i vissuti legati alla prima ondata

Le restrizioni legate al Coronavirus nella sua seconda ondata, se pur meno drastiche rispetto a marzo e aprile, stimolano reazioni di sofferenza e insofferenza anche forti, perché vanno a riattivare i vissuti della prima ondata quando del tutto inaspettatamente ci si è visti privare dell’autonomia e della libertà di muoversi e stare con gli altri.

Non tutti hanno reagito male

In realtà non tutti hanno reagito in modo negativo alle restrizioni. Per molti la forzata inattività ha acquietato molte tensioni legate alle difficoltà di affrontare ogni giorno i propri compagni di classe per esempio, i sentimenti di inadeguatezza o di esclusionedi fronte ai colleghi di università o di lavoro. La pandemia ha legittimato molti evitamenti e indirettamente consentito di recuperare qualche punto nell’autostima (“non sono io che non riesco o non ce la faccio ad uscire, ad affrontare, ecc: è che non si può”), di godere di una sospensione del disagio.

Il futuro si fa più lontano

Soffre forse di più chi è più integrato nel suo ambiente, più adattato alle condizioni precedenti. Si parla molto del disorientamento, della paura per il futuro soprattutto negli adolescenti e nei giovani in generale, che cominciano ora ad avere un senso di futuro e questo si presenta già più lontano, meno raggiungibile.

La paura del contagio ha il suo peso ma quella immediatamente successiva è “la paura di non vedere la fine di questa deprivazione sociale”. Il non avere la giornata scandita dagli impegni scolastici crea un grande vuoto che la didattica a distanzacerto non riesce a riempire.

Meno male che ci sono i social!

In adolescenza e prima giovinezza, la socialità è molto per il completamento dell’identità personale, per l’integrazione del lavoro costruito fino a quel momento, è la “zattera” verso la relativizzazione delle figure genitoriali e lo svincolo dalla dipendenza da loro. La pandemia fa girare le cose al contrario: l’istinto spinge all’esplorazione, la pandemia costringe all’inattività.
Meno male che c’è Whatsapp! Meno male che c’è Instagram! Fino a un anno fa sembravano una maledizione, ora sembrano il contrario.

Che ricaduta avrà tutto questo nell’identità personale? Ne ritarderà il percorso aumentando il rischio e la percentuale di identità liquide, o al contrario, ricorrere a una socialità virtuale anticiperà la capacità di percepire il possibile oltre che il reale? Certo è presto per dirlo.

I giovani sono l’anello più fragile

Si parla molto oggi del disagio psicologico e non mancano consigli concreti su cosa fare o cosa evitare di fare, consigli a volte difficili da mettere in pratica. I nostri giovani sono l’anello più fragile per la ricaduta emotiva: non più bambini e non ancora adulti, non hanno ancora consolidato gli strumenti psicologici necessari.

leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano

Coronavirus, l’angoscia non scompare tramite strade ‘concrete’

Coronavirus, l’angoscia non scompare tramite strade ‘concrete’

Coronavirus, l’angoscia non scompare tramite strade ‘concrete’: la psicologia può fare la differenza

Qualche giorno fa ascoltavo un programma radiofonico in cui veniva intervistata una collega sui temi del momento. Alla fine dell’intervista, nello spazio dedicato agli ascoltatori, interveniva una signora che aveva dovuto chiudere il suo negozio a causa del lockdown. La signora esprimeva la sua angoscia rispetto all’effettiva possibilità di proseguire le vendite online, piuttosto che chiudere definitivamente l’attività: visto che ci sono grandi come Amazon che sono molto forti in questo campo, le sembrava di avere ben poche probabilità di sopravvivere come attività.

Avrebbe voluto chiedere alla psicologa ospite come affrontare questa sua angoscia, che cosa potesse dire a se stessa per migliorare il suo stato d’animo. Il conduttore, prima della psicologa, le rispondeva che il suo problema in realtà non aveva niente di psicologico perché era un problema oggettivo, concreto, pertanto aveva bisogno di una soluzione concreta. L’unica cosa che la signora poteva fare, secondo lui, era cercare strade concrete che le dessero una prospettiva di soluzione e solo attraverso quelle avrebbe potuto trovare la serenità.

La risposta del conduttore è molto semplice, ovvia, molti risponderebbero così, in realtà è vera solo in parte. Indubbiamente un problema concreto ha bisogno di una soluzione concreta, ma allora la domanda è: se la questione è così ovvia come mai le persone non ci riescono? Perché alcune persone arrivano anche a gesti estremi di fronte a problemi analoghi? Il problema è concreto solo per chi lo vede dall’esterno, ma non per chi lo vive e ha un ricaduta forte sul piano psicologico personale ed è quella che ostacola o rallenta la strada della soluzione.

Al di la del dramma, della tragedia, che non si sceglie, quello che fa la differenza è quello che le persone fanno con le cose che accadono loro, è come le persone vivono psicologicamente la propria esperienza. Quello che fa la differenza è quello spazio di elaborazione personale che c’è tra lo stimolo (la tragedia, il dramma, il lockdown,…) e la risposta ad esso, che è in relazione al significato che ognuno gli attribuisce. E’ questo che decide se l’evento subìto diventa un macigno che affossa oppure un momento di ripartenza, se il dramma trova un senso all’interno del proprio momento di vita o rimane solo un evento esterno sfortunato.

leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano