da patrizia mattioli | Ott 29, 2019 | Blog su Il Fatto Quotidiano

Joker spiega la psicoterapia: la sua risata come momento di massima sofferenza
Joker spiega la psicoterapia. Joker è un film che mette in scena l’importanza della ricostruzione narrativa nella comprensione di una storia di vita. La sua racconta come sia arrivato a essere quello che è. Conosciamo Joker per il suo rapporto con Batman, come un personaggio negativo che stimola sentimenti di rifiuto. Ma conoscendo la sua storia personale riusciamo a dare un senso e a comprendere (che, lo ricordo, non vuol dire giustificare) il significato dei suoi comportamenti; forse addirittura arriviamo a empatizzare con lui, che finora ci era apparso solo come un crudele assassino.
La sadica risata che conosciamo è il risultato dell’integrazione patologica di aspettative familiari (l’altrettanto patologica madre gli chiede costantemente di ridere), di una non maturata capacità di contenere le emergenze emotive e di probabili danni neurologici dovuti ai maltrattamenti subiti da piccolo. Quella che abbiamo sempre interpretato solo come segnale della sua cattiveria è soprattutto l’espressione della sua più grande sofferenza. Il personaggio mostruoso assume ai nostri occhi caratteristiche umane.
Quella di Arthur Fleck, futuro Joker, è una storia fatta di abusi, di negazione, di segreti familiari. Alla disfunzionalità dell’ambiente familiare si aggiunge l’emarginazione e la non considerazione dell’ambiente sociale, incapace di compensare le ingiustizie e le carenze subite.
Non solo Arthur perde il lavoro, ma anche l’assistenza sociale e con essa il sostegno psicologico e farmacologico che lo tenevano ancora nei limiti. Vittima di violenzeverbali e fisiche anche nella quotidianità extrafamiliare, Arthur si lascia andare all’istinto che lo porta a mettere in atto un progetto di violenza come reazione. Progetto che gli permette di ottenere, senza volerlo, una popolarità, anche se in negativo, prima impensabile. Arthur/Joker diventerà finalmente visibile e testimonial di tutti gli invisibili che la società ignora e che vedono in lui una possibilità di riscatto da una vita disgraziata.
La ricostruzione della storia ci fa vedere Joker sotto un’altra luce: ora sappiamo come è arrivato a diventare così. In generale l’essere umano è il risultato di un percorso di relazioni e il disagio psichico è il risultato di una storia relazionale disfunzionale. La ricostruzione della storia personale rende coerente comportamenti attuali, altrimenti incomprensibili.
È quello che accade nelle psicoterapie: l’atto terapeutico, a partire da sintomi e comportamenti apparentemente incomprensibili e disfunzionali, mira a ottenere una ricostruzione della storia della persona e, attraverso essa, a produrre un cambiamento. La costruzione dell’identità personale è un lavoro di individualizzazione e differenziazione dal mondo, in particolare dalle figure di riferimento significative; il che implica un modo di vederle e un modo di sentirsi con loro.
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da patrizia mattioli | Ott 13, 2014 | Blog su Il Fatto Quotidiano

Dovevano stare davvero male i tre ragazzi che hanno aggredito Salvatore, 14 anni, per arrivare a rifarsi su un ragazzino solo e molto più piccolo. Se volevano dimostrare di essere più forti non si sono dovuti sforzare molto.
Ci si domanda cosa spinge ragazzi così giovani, che magari immaginiamo a fare altro, a studiare o a cercare lavoro o una fidanzata, passare un pomeriggio a fare del male ad un compagno che a mala pena potrebbe essere il fratello minore?
I giornali non riportano informazioni sufficienti per ricostruire un profilo degli aggressori, che dia il senso della loro azione. Sappiamo che erano tre, tutti di 24 anni, uno di loro, presumibilmente il leader del gruppo e anche quello che ha messo in pratica la violenza, padre di un bambino di 2 anni. Non sappiamo altro, che vita fanno che storia hanno, quali frustrazioni, se ce ne sono state, possono dare il senso dell’azione.
Possiamo solo fare ipotesi. Sappiamo che spesso il bullismo viene messo in atto in ambienti e in situazioni in cui mancano figure adulte affidabili, sia come presenza fisica che come figure di riferimento. I tre aggressori sarebbero adulti come età, ma non lo hanno certo dimostrato. Un altra cosa che sappiamo è la ricorrente mancanza di senso morale, sia per l’immaturità, che per le carenze educative, come anche la presenza della noia che, in assenza di alternative, spinge alla ricerca di situazioni eccitanti per passare il tempo, in questo caso la violenza; infine la presenza nelle storie personali, di modelli violenti e crudeli, che spaventano e affascinano nello stesso tempo.
Il bullismo e il comportamento da bullo riducono al minimo lo spazio tra volere e ottenere, tra l’impulso e l’azione e stimolano sentimenti di paura e nello stesso tempo di ammirazione nei compagni che più o meno consapevolmente vorrebbero emulare il bullo.
La difficoltà ad entrare in contatto con le proprie emozioni e riconoscere quelle degli altri, così come l’incapacità di esprimere i sentimenti con le parole, possono portare a violenze gratuite, come anche la difficoltà di mettersi in relazione con gli altri.
I comportamenti violenti possono servire a mantenere un livello di autostima accettabile, per riscattarsi magari da violenze subite in casa nel tempo, o per riscattarsi dagli insuccessi (scolastici, sentimentali, professionali,..). Rifiutato e frustrato il bullo si costruisce una realtà parallela in cui è “vincitore”, in cui riesce ad affermarsi.
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da patrizia mattioli | Ott 16, 2013 | Blog su Il Fatto Quotidiano
La violenza verso il partner
E’ giusto, chi mette in atto comportamenti violenti se ne deve assumere la responsabilità. Se la violenza verso un partner fosse però solo un problema di chi la compie, basterebbe allontanarsi, fisicamente ed emotivamente, dalla relazione per smettere di subire, mentre le cose si presentano più complesse. Uno dei problemi di certe coppie, è la difficoltà di entrambi i partner di allontanarsi uno dall’altro. Il legame che li unisce è spesso molto forte e mantenuto da entrambi.
La persona che si comporta violentemente, agisce un impulso che non riesce a contenere. E’ il segnale di una sofferenza non percepita come appartenente a sé, al proprio modo di essere, alla propria sensibilità, ma attribuita totalmente all’altro che, spesso se ne assume la responsabilità, entrambi consapevolmente o meno. I comportamenti e gli atteggiamenti che violano lo spazio e la dignità personale dimostrano che i partner hanno pochi strumenti per elaborare certi vissuti a livelli più alti di complessità, vissuti che rimangono più che altro a livello di reazioni viscerali e istinti e come tali agiti.
Una violenza può assumere tante forme: verbale, fisica, manifestarsi attraverso un tradimento, il punto centrale, io direi, è che la sofferenza e il comportamento violento che ne segue vengono attribuiti all’altro.
L’altro può subire, mettendosi in una posizione che Pauk Watzlawick definisce complementare, accettando l’attribuzione e la punizione che ne segue: “ti ho urlato, tradito, aggredito, perché sei incapace, inadeguato/a, distratto/a, sciocco/a, ecc…”, “mi ha urlato, tradito, aggredito, perché sono incapace, distratto/a, inadeguato/a,..”, con gli epiloghi drammatici che conosciamo.
Oppure mettersi in posizione simmetrica e rimandare le reazioni al mittente: “mi ha urlato, tradito, aggredito, perché è cattivo/a, prepotente, indegno/a, scorretto/a,…” in un escalation di aggressività reciproca che può portare a conclusioni altrettanto drammatiche. C’è un film di qualche anno fa, La guerra dei Roses, che dietro la contesa per una casa, ben rappresenta la difficoltà di una coppia di sciogliere il legame e di come questa possa portare all’autodistruzione.
Valutare le cose come dinamica di coppia, non significa promuovere la terapia di coppia.
In una terapia, di coppia o individuale che sia, ci si trova sempre, o quasi, ad affrontare problematiche relative ai legami sentimentali dal momento che, come diceva John Bowlby, le maggiori sofferenze gli esseri umani le sperimentano mentre sono impegnati nella costruzione, nel mantenimento e nella rottura di legami affettivi importanti.
Chi da la responsabilità dei propri stati emotivi all’altro, è difficile che intraprenda una terapia di coppia, per lo meno spontaneamente, è più facile che ci venga trascinato e che utilizzi quello che emerge in seduta come ulteriore conferma delle responsabilità dell’altro. E’ un terreno minato sia per la coppia che per il terapeuta, quest’ultimo deve tutelare i due partner da sovraesposizioni personali inadeguate al momento.
Non tutte le richieste di terapia di coppia possono essere accolte. A volte emerge chiaramente che le dinamiche di coppia sono disfunzionali, ma altrettanto chiaramente che uno o entrambi i partner stanno facendo i conti con sofferenze precedenti che trovano nelle dinamiche di coppia il loro alimento, ed è meglio che ognuno segua prima o contemporaneamente un percorso personale di presa di consapevolezza del proprio modo di funzionare.
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