da patrizia mattioli | Feb 6, 2017 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Costruire una relazione di coppia significa costruire una forte interdipendenza affettiva con l’altra persona, e con questa la percezione dell’esclusività nel rapporto. In una relazione sentimentale si costruisce soprattutto un sentimento di reciproca esclusività e un modo stabile di percepirsi.
Mettersi insieme e separarsi possono essere processi lunghi e complessi. Più il rapporto è importante, più la separazione è difficile e emotivamente faticosa. Ancora più faticosa quando il rapporto è particolarmente esclusivo e la chiusura arriva improvvisa e inaspettata per la morte prematura dell’altro, come è successo a Fabio Di Lello che ha perso l’amata moglie in un incidente stradale.
Come ha evidenziato Murray Parkes nelle sue ricerche, la difficoltà maggiore dopo la morte di un coniuge è legata alla ridefinizione del proprio ruolo, verso se stessi, verso l’ambiente circostante, verso la società. Tutta la vita, passata e futura, ha ora un significato diverso anzi, ha perso il suo significato e il suo scopo. Spesso rimane la percezione della presenza del coniuge scomparso a sostegno del momento difficile.
Parkes (1972) e John Bowlby (1980) hanno messo in evidenza come il lutto sia un processo con delle basi biologiche, costituito da una serie di manifestazioni che possono fondersi, sovrapporsi, oscillare nella loro successione, ma che rimangono comunque riconoscibili, al di là della cultura di appartenenza.
La prima fase “dello stordimento e dell’incredulità”, può durare da alcune ore ad alcuni giorni, in cui non si riesce a realizzare e accettare la perdita, è una fase in cui momenti di dolore sono alternati a momenti di collera.
La seconda fase “della ricerca”, può durare mesi o, nelle situazioni più difficili, anni, in cui si passa dall’irrequietezza alla paura, dall’insonnia alle allucinazioni, ci si arrabbia con se stessi per non aver evitato la perdita, con il defunto per essersene andato, con qualcun altro a cui si possono attribuire in maniera più o meno realistica colpe e responsabilità, si ricerca la persona nei luoghi in cui era più facile trovarla o in quello dove si ritiene che sia ora (la tomba).
Nella terza fase di “disorganizzazione”, c’è la rassegnazione, l’accettazione della perdita, prevale la disperazione.
Se il lutto è riuscito a completare il suo corso si arriva alla quarta fase della “riorganizzazione” con la costruzione di un nuovo progetto di vita.
La reazione alla morte di una persona cara ha inizialmente, la stessa forma della reazione alle separazioni, in caso di rottura della relazione sentimentale: soprattutto la ricerca e la rabbia sono, dal punto di vista dell’attaccamento, reazioni finalizzate a recuperare la vicinanza della persona amata e scoraggiarne un ulteriore allontanamento: la perdita definitiva è meno frequente delle separazioni a cui siamo sottoposti nella vita perciò, il sistema risponde in maniera automatica a tutte le separazioni come se fossero comunque reversibili.
Accettare la perdita come definitiva e sopportare il dolore che l’accompagna sembrano essere gli elementi indispensabili affinché il lutto possa fare il suo corso, chi sopravvive deve revisionare l’immagine di sé e della sua vita, cambiare comportamenti, atteggiamenti e progetti legati alla persona scomparsa, deve “ricostruirsi” senza l’altro.
E’ un processo lungo e doloroso che può tardare a iniziare anche in funzione di quanto sia stato assoluto il rapporto che si è interrotto, di quanto sia stato improvviso l’evento che ha portato alla separazione, di quanto fosse prevedibile. Nel caso di Fabio non lo era. Il rapporto con Roberta da quanto si legge, aveva assunto una forma quasi totalizzante, Fabio aveva fatto scelte importanti, rinunciato ad altri progetti per vivere il suo rapporto con Roberta e costruire con lei una famiglia, erano diventati inseparabili e riservati, secondo gli amici, perché si bastavano. Avevano creato una distanza tra loro stessi e gli altri.
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da patrizia mattioli | Feb 12, 2014 | Blog su Il Fatto Quotidiano
Il lutto: l’elaborazione
Quando la morte ci passa vicino (vedi il precedente post), tutto il resto sembra relativo, i problemi banali della quotidianità e il futuro una parola senza significato.
Si recupera una più giusta priorità nelle cose, una più giusta importanza ai rapporti umani, alle relazioni, agli affetti.
Ci vuole tempo per superare la sofferenza che un distacco comporta o per accettare che quella sofferenza ci accompagnerà per sempre, che diventerà una parte di noi.
Ognuno ha il suo modo di affrontare questo percorso: distraendosi con tante attività per non pensare, per la paura dei propri sentimenti; cogliendo il dolore come una condizione naturale attraverso la quale esprimere tutta la sofferenza dello stare al mondo; affrontandolo con disorientamento o con freddezza perché il dolore è un sentimento a cui non ci si può lasciar andare.
Attraversare un lutto significa costruire una nuova relazione con la persona scomparsa, una relazione interiore che permetterà di tenerla dentro di sé, con i ricordi, i valori, le abitudini, i sogni. Chi se ne va lascia una presenza, un patrimonio psicologico da tramandare. Si scopre la capacità di continuare ad amarla anche se non è più presente fisicamente, di provare per lei una forma di affetto che sopravvive al distacco.
Che altro senso ha il lutto? Di sicuro la sofferenza, i sentimenti di solitudine, la crisi interiore che una perdita comporta, obbligano a profondi cambiamenti, a una forzata maturità interiore a una maggiore consapevolezza dei valori e delle scelte che guideranno l’esistenza futura.
Uno dei miei primi docenti diceva che anche l’esperienza più negativa ha un risvolto positivo, anche la morte. Ai nostri commenti increduli lui sdrammatizzava dicendo che chi muore non si deve più preoccupare di tanti problemi della vita. Chi riesce a vedere le cose in questo modo sta già un bel pezzo avanti nel suo lutto.
da patrizia mattioli | Gen 29, 2014 | Blog su Il Fatto Quotidiano
L’interruzione di un progetto di vita
Venerdì è morto un ragazzo che conoscevo, aveva solo 15 anni, stava accompagnando un amico, su una curva ha perso il controllo del motorino, una brutta caduta.
Era un po’ che non lo vedevo, se lo avessi incontrato probabilmente non mi avrebbe salutato e forse non lo avrei riconosciuto, era sicuramente cambiato molto dal bambino che avevo conosciuto anni prima. Ma questo non ha ridimensionato la mia reazione come credo quella di tanti altri che nel quartiere lo conoscevano e anche di quelli che non lo conoscevano.
La morte di un ragazzo lascia inebetiti, increduli. Il primo pensiero è per lui, per l’interruzione del suo progetto di vita, poi per i suoi genitori, per lo sforzo che dovranno fare per sopravvivere, poi per i fratelli, i parenti, e poi per tutti noi, che meno vicini siamo comunque partecipi, perché la morte di un giovane colpisce tutta la comunità, ognuno viene toccato nell’affetto, nel senso di impotenza, nel dolore in quanto umani in grado di entrare in sintonia con il dolore altrui, e ci spinge a riflettere, a interrogarci, a ricercare un senso nella perdita. Una vita che si spegne troppo presto toglie un po’ di futuro e di fiducia a tutti.
Magari aiutare, rendersi utili, può alleviare la pena, può essere una strada per superare il sentimento di impotenza che in certi momenti sovrasta ogni cosa. Magari dire qualcosa in un post.
Parkes dice che la perdita di un figlio è l’evento più stressante che un essere umano possa sperimentare. Sappiamo che ha ragione, è l’inversione dell’ordine naturale delle cose, la perdita di tanti progetti futuri, l’inutilità di tanti sforzi passati.
Ci insegnano e ognuno di noi prima o poi lo sperimenta di persona che il lutto ha le sue fasi: la prima è di torpore e stordimento, poi piano piano si realizza la perdita, si cerca la persona perduta nei luoghi che frequentava, nei propri pensieri, nelle proprie percezioni, ci si arrabbia con lei per essersene andata, poi arriva la disperazione, quando ormai è chiaro che non tornerà. Infine si riprende la vita di prima, forse.
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