Dimenticare un bimbo in auto? Siamo tutti a rischio

Dimenticare un bimbo in auto? Siamo tutti a rischio

 

 

Un’emergenza internazionale

Tragedie come quella di Tamara, la bimba di 18 mesi morta per arresto cardiaco perché dimenticata in auto, sembrano diventate una triste ricorrenza della nostra quotidianità, si parla di emergenza internazionale per la frequenza con la quale questi casi si sono presentati negli ultimi vent’anni. Alcune analisi focalizzano l’attenzione soprattutto sul comportamento di dimenticanza rispetto al piccolo che non viene più visto come essere umano (ma viene gestito in modo pratico come un pacco che può anche essere dimenticato in macchina). Consideriamo però che spesso la persona che “dimentica” non considera più neanche sé stessa come essere umano e la sua giornata magari è un insieme di impegni che si susseguono senza soluzione di continuità. La persona non è più in grado di gestirli, ne è sopraffatta, le esigenze personali e quelle genitoriali vengono attivamente escluse.

La mancanza di riposo, la stanchezza, le variazioni nella routine quotidiana in generale influiscono sul comportamento anche del più affettuoso e attento dei genitori, i genitori di oggi si trovano poi più facilmente soli ad affrontare le responsabilità della crescita dei figli, sempre più alle prese con le frenesie e gli stress che caratterizzano la società moderna, sempre più soggetti a muoversi e funzionare in modo “automatico”, senza essere presenti e consapevoli nella relazione con se stessi e con i figli. Forse non è necessario essere affetti da una psicopatologia per incorrere in certi comportamenti, basta essere totalmente assorbiti dalle responsabilità lavorative, contemporaneamente essere preoccupati per il bilancio dell’economia e/o per l’organizzazione familiari, sapere di non poter contare su punti di riferimento validi in caso di necessità e alla fine, avere in auto un seggiolino nascosto e un bambino che dorme.

Si moltiplicano le raccomandazioni sul comportamento da tenere per prevenire i rischi, Il ministero della Salute raccomanda di lasciare gli oggetti personali come la borsa o il telefono sul sedile posteriore, accanto al seggiolino, per essere certi di controllare una volta scesi dalla macchina (sembra più sicuro non dimenticare una borsa e un cellulare che un bambino), raccomandazioni che sembrano quasi sostenere il comportamento automatico e stressare ancora di più il genitore che viene esortato ad aumentare il controllo su sé stesso, piuttosto che a fermarsi a riflettere, a prendere consapevolezza della qualità della vita che conduce.
Si moltiplicano anche le applicazioni e gli allarmi per segnalare il bambino in auto (il seggiolino con l’allarme, il portachiavi intelligente, le app che inviano messaggi d’emergenza), un controllo sempre più decentrato, basato su fattori esterni, allontana sempre di più da se stessi e crea le condizioni per ulteriori comportamenti a rischio. Per arginare il problema e se non ci sono alternative, utilizziamoli tutti questi i marchingegni che la tecnologia ci mette a disposizione (ma facciamolo con attenzione altrimenti rischiamo di spostare più avanti il problema: confidando sul controllo esterno, si potrebbe ritenere di tollerare livelli maggiori di stress, fino a che non succede qualche altra cosa di irreparabile), pensiamo però anche a come aiutare i genitori a svolgere bene la loro funzione: sosteniamo la famiglia e miglioriamo le condizioni di lavoro di tutti.

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Crisi economica: la perdita del lavoro come opportunità

Patrizia MattioliCrisi economica: è possibile rendere costruttivo un momento drammatico?

Perdere il lavoro è un problema sul piano economico, ma non solo, perché il lavoro è uno dei pilastri dell’identità personale.

Trovarsi disoccupati comporta una perdita di definizione, di potere, di punti di riferimento.

Ho parlato di lavoratori autonomi, di imprenditori e di quanto possano influire lo stato d’animo e le vicende personali nello sviluppo di una crisi lavorativa, nel lavoro autonomo e imprenditoriale.

È diverso per chi ha un lavoro dipendente e non c’entra nelle decisioni aziendali di licenziare, anche se alcuni atteggiamenti personali possono avere il loro peso, tra un lavoratore ritardatario e uno puntuale potrebbe essere facile per l’azienda scegliere.

È diverso perdere il lavoro a 30, 40 o 50 anni. È diverso perderlo quando si vive ancora in famiglia, o se si ha una famiglia propria, quando ci sono figli o altre responsabilità a carico, per esempio un mutuo o altro.

È diverso se si considera la perdita come il risultato di fattori esterni (le decisioni dell’azienda, la crisi economica, la sfortuna) o di fattori interni (la capacità e adeguatezza personali e/o altri fattori insiti nella propria natura). Nel primo caso magari prevalgono sentimenti di rabbia, di ingiustizia, di rivalsa, con una maggiore stabilità nell’autostima e scarse percepite possibilità di assumere un ruolo attivo nel recupero. Nel secondo caso possono prevalere sentimenti di fallimento, di incapacità e indeguatezza personali, con una flessione nel sentimento di autostima, ma con maggiori possibilità di recuperare il controllo della situazione (se il problema è interno c’è la possibilità di intervenire).

Un giusto rapporto tra questi due poli, cioè un’attribuzione equilibrata di responsabilità sarebbe auspicabile.

Ma soprattutto può fare la differenza il significato che si attribuisce all’evento: se solo quello di un problema da risolvere o anche quello di un’opportunità da cogliere.

Ho già detto che perdere il lavoro significa perdere anche un sostegno importante dell’identità personale, perciò è importante trovare velocemente un sostegno sostitutivo: una prospettiva, un percorso da intraprendere, un progetto da inventare.

Ci sono attività che nascono proprio in seguito alla perdita del lavoro e nonostante la crisi.

Chi si ritrova disoccupato può ritirarsi dalla scena per un po’, per lo meno emotivamente, per un po’ lasciarsi andare alla disperazione – una reazione iniziale è comprensibile e necessaria per “ammortizzare il colpo” per elaborare quanto è accaduto – e poi provare a recuperare e magari avere una buona idea, coinvolgere altri o essere coinvolto da loro.

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Il lavoro nell’equilibrio personale

Magritte

Se non si trova o si perde il lavoro  è meglio dare la colpa a cause esterne o  attribuirsene la responsabilità?

Il lavoro è uno dei fondamenti dell’equilibrio psichico personale.

Avere un lavoro stabile, signifca avere delle sicurezze, poter costruire un progetto: una famiglia una casa. Significa   poter produrre scenari per il futuro.

Perdere il lavoro o non riuscire a trovarlo genera insicurezze ben al di là delle difficoltà economiche. Sul piano psicologico va a minare le fondamenta del proprio senso di sè, della propria identità personale.

Chi non riesce a trovare lavoro, non ha la possibilità di mettersi alla prova, non è in grado di costruire un senso di sè più  articolato rispetto alle proprie capacità personali, ha difficoltà a vedere il proprio futuro.

Per chi il lavoro lo perde e non riesce a ricostruire una dimensione lavorativa entro breve, il futuro si ferma. Anche se ha costriuito nel tempo una solida identità professionale, corre lo stesso rischio di chi non ha mai lavorato: entrare nel dubbio fondamentale rispetto a se stesso e alle proprie competenze: di essere/non essere più capace di lavorare, di essere/non essere più utile alla società, alla famiglia, di non avere più un senso e un ruolo,. E’ una situazione che si verifica qualche volta anche dopo il pensionamento, soprattutto se è anticipato e viene subìto o se non si sono costruite alternative al lavoro prima di andare in pensione.

Il senso di sè di chi è, o è diventato disoccupato, non è o non è più sostenuto dalle relazioni esterne  (dai colleghi, dal capo, dall’esercizio delle proprie mansioni)). Quindi manca di tutta una serie di conferme esterne, con conseguenze sul piano emotivo/affettivo.

E’ importante cogliere il vissuto negativo che ne può derivare, in termini costruttivi,come spinta a fare e non al contrario.

Fa la differenza come ci si spiega quello che accade.

Chi lo attribuisce a se stesso, a qualche propria mancanza o inadeguatezza (“non lavoro perchè sono un incapace,  …perchè non sono abbastanza bravo,…”),  mette in discussione se stesso  e mantiene stabile il mondo’esterno.  Magari tende a chiudersi, a limitare i contatti con gli altri anche per  le difficoltà economiche. L’isolamento può essere  un importante momento di recupero.

Attribuirsi le responsabilità rappresenta anche un tentativo di riprendere il controllo della situazione: significa implicitamente riconoscersi la possibilità di cambiare di trovare una soluzione: “se lo si è generato, lo si può risolvere”purchè si preveda di poter migliorare la propria presunta mancanza.

Per chi lo  attribuisce all’esterno (“non lavoro perchè non mi viene data la possibilità,..perchè non mi viene riconosciuto il diritto,…, perchè non ci sono opportunità,..”)), il proprio senso di competenza personale non ne risulta toccato, ma  si perde il senso di poter influire sugli eventi- Possono  prevalere  sentimenti di impotenza o di ingiustizia. Anche questo atteggiamento  però può essere considerato come tentativo di  riprendere il controllo. Se la responsabilità è del mondo esterno, basta cambiare contesto per recuperare.

Attribuzioni totalmente interne o totalmente esterne non sono in grado di spiegare adeguatamente un fenomeno che è evidentemente il risultato della complessa interazione tra i due modi di vedere le cose.

In ultima analisi però attribuire  responsabilità a sè o agli altri non ha importanza, purchè si colga l’aspetto generativo di entrambi gli atteggiamenti.