Smartphone e videogames: l’ossessione per il gioco in rete – I parte –

Smartphone e videogames: l’ossessione per il gioco in rete – I parte –


Lo smartphone e i videogames, così come tutta la tecnologia, sono oggi parte integrante della quotidianità dei ragazzi: li divertono e li coinvolgono, tanto quanto preoccupano i loro genitori. Sono frequenti le richieste di consulenza su questo argomento.

Qualche esempio

Il padre di Lorenzo, terza media, chiede un colloquio perché vuole capire meglio cosa succede a suo figlio: da qualche tempo il suo rendimento scolastico è calato e Lorenzo sembra aver perso la motivazione alla scuola al punto che da alcuni giorni si rifiuta di andarci. Secondo il padre è tutta colpa dei videogiochi, ultimamente si è appassionato a uno in particolare, va con il cellulare in rete a giocare per ore, trascurando tutto il resto.

La mamma di Manfredi, terza media, è molto preoccupata perché suo figlio ha un rapporto morboso con i giochi elettronici. Il ragazzo è buono e introverso lei lo rimprovera spesso perché gioca troppo, lui si chiude in se stesso e piange.

Da qualche mese ha problemi a scuola. Hanno provato a togliere la Play Station sia per punizione, sia per togliere una distrazione dall’impegno scolastico, il risultato è stato innanzitutto una brusca caduta dell’umore in Manfredi. 

Hanno restituito la Play al miglioramento dei voti e di nuovo si è verificata un’immersione morbosa nel gioco e un nuovo peggioramento scolastico. L’hanno tolta di nuovo, altra caduta dell’umore. E’ diventato un tira e molla che non sembra portare risultati stabili.

Il padre di Paolo, anche lui terza media, è preoccupato per suo figlio perché nell’ultimo anno ha avuto un forte calo nel rendimento scolastico e un ritiro sociale notevole, non esce con gli amici, preferisce rimanere a casa a giocare in rete con l’x-Box. Fatica a riconoscere suo figlio che è sempre stato un leader in classe e ogni occasione era buona per uscire con gli amici. Pensa che sia stato il gioco a deviarlo.

Le reazioni dei genitori

Alcuni genitori assumono atteggiamenti diffidenti verso i videogiochi, la tecnologia e la rete e tendono ad attribuire ad essi le difficoltà che osservano nei loro figli. L’atteggiamento diffidente impedisce loro di conoscere i mezzi e i luoghi virtuali frequentati dai figli, così spesso non hanno un’idea di cosa essi facciano mentre sono concentrati sul cellulare, e tendono a valutare qualsiasi attività online come dannosa. Questa in realtà è una valutazione parziale.

Nello smartphone per esempio c’è tutto: la radio, la televisione, la rete, i libri, i video e tutti gli spazi social in cui i ragazzi possono incontrare gli amici e chattare con loro.

Il cellulare è ormai ritenuto uno strumento utile anche ai fini didattici, molti insegnanti oggi invitano gli alunni a visitare siti o pagine precise in classe, durante la lezione; a casa spesso lo consultano mentre fanno i compiti per ricercare materiali, fare traduzioni, io stessa ho utilizzato in più occasioni la “passione”dei ragazzi per lo smartphone, per somministrare questionari e rilevare sondaggi.

Se alcuni genitori sono diffidenti, ce ne sono altri che hanno con la tecnologia lo stesso rapporto che rimproverano ai figli, e risultano perciò poco attendibili quando li biasimano perché trascorrono troppo tempo in rete: criticano a parole quello che rafforzano con i fatti.

Si parla molto di quale sia l’impatto delle tecnologie sul sistema nervoso umano, particolarmente su quello delle fasce più giovani e quale differenza ci sia tra la generazione digitale e quelle precedenti. Molti studiosi sostengono la tossicità del digitale, ma senza digitale e senza internet perderemmo molte opportunità. E’ necessario evidentemente trovare una misura nel tempo da dedicarvi, se è difficile per un adulto, lo è di più per un ragazzo. 

 Lorenzo, Manfredi e Paolo, presentano comportamenti simili, tutti sono molto assorbiti dal gioco ed è facile attribuire a questo la causa dei problemi scolastici. Spesso le cose sono più complesse e il gioco più che la causa, è la forma che assume il disagio, il sintomo di un problema più ampio e come tale può essere la porta di accesso per la comprensione di ciò che ne sta alla base.

(segue)

tratto da: Attaccamenti a Scuola di Mattioli, Di Marzo, Febi, Martirani – edito da Alpes Italia – Roma – 2017

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Ragazzo suicida a Lavagna, la lezione che dobbiamo trarne

Ragazzo suicida a Lavagna, la lezione che dobbiamo trarne

I più recenti fatti di cronaca, l’ultimo è quello di Giovanni che si butta dal balcone durante una perquisizione in casa da parte della Guardia di Finanza, rimandano alla necessità di rilanciare una cultura psicologica e un’adeguata conoscenza degli strumenti psicologici. Troppe cose sembrano accadere per mancanza di informazioni di base.

Il problema dell’acting out, in adolescenza per esempio (così viene chiamato il comportamento messo in atto da Giovanni), è un problema molto presente. Il termine significa letteralmente “passaggio all’atto” e si riferisce ai comportamenti aggressivi e impulsivi messi in atto da un individuo per esprimere vissuti che non riescono ad essere elaborati sul piano cognitivo e verbalizzati ma vengono comunicati solo attraverso l’agito.

Sono comportamenti per niente o poco riflessivi: l’azione segue immediatamente l’impulso senza che la persona sia in grado di anticipare uno scenario con le conseguenze del suo gesto. Chi lavora con gli adolescenti sa che l’agire comportamenti improvvisi, imprevedibili, inattesi, è una delle forme privilegiate di espressione delle emergenze emotive del ragazzo.

Deve essere andata così per Giovanni di fronte a quella perquisizione inaspettata: si sarà sentito scoperto? avrà avuto paura di essere accusato? di essere giudicato? di essere arrestato? si sarà sentito in qualche modo “spacciato”? Forse sua madre voleva solo spaventarlo… Da una parte è comprensibile che abbia fatto riferimento e chiesto aiuto a un’autorità superiore per gestire una situazione di cui aveva perso il controllo, ma perché non rivolgersi a un ente più coerente con il problema? Sicuramente ci sono cose della vicenda che non sappiamo, ma perché non puntare più sulla comprensione che sulla repressione?

E’ anche comprensibile che i finanzieri, tutti padri di famiglia da quello che leggiamo, si siano prodigati per accogliere la richiesta. Né loro, né la madre di Giovanni avevano gli strumenti per prevedere l’impatto emotivo che avrebbe avuto sul ragazzo, anche più suscettibile di altri adolescenti per la sua storia.

Giovanni era stato adottato all’età di un anno, quando aveva già una storia. La capacita di costruire attaccamenti solidi si crea nei primi mesi di vita. I bambini che vivono esperienze di separazione e abbandono entro i 6 mesi di età, dopo un anno nella famiglia adottiva riescono a recuperare e costruire modelli di attaccamento molto simili a quelli di bambini cresciuti in famiglia sin dalla nascita. Oltre i 6 mesi questo possibilità diminuisce e aumenta il rischio di insicurezza e disorganizzazione. E’ più difficile per il bambino acquisire la tranquillità del mantenimento del legame con le figure genitoriali perciò ha difficoltà ad allontanarsene, ad essere sincero, ad esprimere il disagio… spesso il fisiologico distacco adolescenziale emotivo, fisico e/o ideologico dai genitori, come anche l’eventualità di poterli deludere, corrisponde nel vissuto personale, alla perdita del loro affetto.

C’è la spinta all’autonomia ma si è ancora molto dipendenti da loro, per questo a volte sono molto arrabbiati, tendenzialmente più arrabbiati e oppositivi di altri adolescenti. Più è difficile staccarsi, più è forte la rabbia, emozione notoriamente utile alla demarcazione, al distacco, all’affermazione di sé. Probabilmente anche Giovanni era alle prese con questa difficoltà e negli ultimi tempi, da ragazzo diligente si era trasformato, trascurando la scuola e accompagnandosi a cattive amicizie.

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