Eterno dilemma tra maternità e affermazione professionale: serve tentare un’integrazione

Eterno dilemma tra maternità e affermazione professionale: serve tentare un’integrazione

 

 

 

 

 

 

Le donne al potere dovrebbero costruire scenari nuovi

Per Lavinia Mennunidobbiamo far sì che le ragazze di 18-20 anni vogliano sposarsi e vogliano mettere su una famiglia”. Per Elly Schlein “l’ambizione di tante deve essere quella di diventare Rita Levi Montalcini”. Due facce della stessa medaglia. Posizioni opposte che continuano a riflettere l’eterno dilemma tra maternità e affermazione professionale. Le donne come gli uomini dovrebbero essere libere di scegliere in che proporzione costruire il proprio progetto di vita, senza che questo penalizzi l’una o l’altra area. Soprattutto dovrebbero evitare di combattere battaglie con strumenti e obiettivi che non gli appartengono, costruiti ancora oggi su modelli molto maschili.

Le donne in generale – e soprattutto quelle che arrivano a ricoprire posizioni di potere – dovrebbe portare scenari diversi, a cominciare dall’utilizzo di articoli e sostantivi adeguati al genere piuttosto che adeguarsi a quello che c’è (il segretario di partito, il presidente del consiglio…), che facciano intravedere la prospettiva di una società più femminile dove la maternità non è una penalizzazione ma una risorsa, e dove non è solo un fatto personale. Sembra piuttosto che si realizzi un’incongruenza tra quello che una donna raggiunge e la definizione che se ne dà, accettando implicitamente l’idea che maschile è meglio e che se si ricopre quella posizione di potere è perché si è un po’ più “maschili” che femminili, come a rinnegare o sopraffare quella parte femminile che sembra troppo fragile e vulnerabile per far parte di un profilo di potere.

Non è così che si cambiano le cose. Se certi atteggiamenti erano inevitabili e comprensibili qualche decennio fa, al tempo delle prime donne manager, non lo sono più oggi.
Dalle donne che vanno al potere oggi ci aspettiamo cose nuove. Prospettive che sappiano integrare femminilità e affermazione professionale. Che gettino le basi e qualcosa di più per una società più rispettosa delle regole della natura, dove la maternità, che è un’esperienza importante anche se non essenziale nella vita di una donna, sia favorita, tutelata, protetta. La genitorialità è importante nella vita di una donna come anche nella vita di un uomo. È importante che si realizzi una più equa distribuzione delle responsabilità, che consenta a entrambi i genitori di esserlo e occuparsi dei propri figli, così come di realizzarsi sul lavoro.

Come dice Ugo Morelli (saggista e psicologo italiano), non avremo un mondo migliore quando più donne arriveranno al comando se continueranno ad usare un codice maschile. Forse avremo un mondo migliore quando uomini e donne sapranno integrare codici maschili e femminili…..

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Chi legge nello spot Esselunga uno stigma verso i genitori separati per me generalizza

Chi legge nello spot Esselunga uno stigma verso i genitori separati per me generalizza

 

 

 

 

 

Ho visto lo spot di Esselunga che sta facendo molto discutere. È bello, emozionante. Fa tenerezza la bambina che porge la pesca al papà dicendogli che gliela manda la mamma. Nello spot si capisce che i genitori sono separati, ma soprattutto che è una separazione non serena, che tra i due ex la comunicazione non è buona.

Stringe il cuore pensare quale peso e quali responsabilità un bambino si assumenei confronti dei suoi genitori: quello di aprire uno spiraglio di comunicazione, di riavvicinarli. Cercano di farlo i figli di genitori separati come anche i figli di genitori che rimangono insieme e non sanno più comunicare. Lo fanno i figli di genitori che sono in conflitto, separati o meno che siano. Spesso i figli cercano di mediare, di compensare le inefficienze genitoriali, di riavvicinarli, intervenendo direttamente con un gesto, come nello spot, oppure attraverso un sintomo che, riorientando coercitivamente l’attenzione, distoglie dal conflitto.

Non sono felici in generale, i bambini di genitori che soffrono e che nella sofferenza non riescono più a svolgere il loro ruolo. Più che l’infelicità della bambina, sottolineerei l’aspetto costruttivo del suo gesto: la bambina prova a fare qualcosa di utile, dando il suo contributo recupera un senso di controllo sulle cose.

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Anna era affascinata dagli studi di suo padre’: così è nata l’idea dei Piccoli Psicologi

Anna era affascinata dagli studi di suo padre’: così è nata l’idea dei Piccoli Psicologi

Quando qualche anno fa ho sentito l’esigenza di aprire delle parentesi di leggerezza nel lavoro, mi è capitato di conoscere libri di: Piccoli Scienziati, Piccoli Filosofi e altri Piccoli Fenomeni, che mi hanno fatto pensare di crearne una versione anche nella psicologia. È nata così l’idea di Piccoli Psicologi: una storia della psicologia raccontata attraverso il susseguirsi delle vite avventurose dei suoi protagonisti. La presunzione è quella di racconti informativi e formativi, che offrano le prime nozioni di psicologia attraverso storie fantastiche, liberamente tratte dalle effettive biografie dei personaggi.

Le storie sono uno strumento antichissimo di comprensione e organizzazione di significati. Raccontare storie è il modo migliore per trasformare informazioni complesse in una narrazione e attraverso di essa suscitare emozioni e favorire la memorizzazione. I bambini sono curiosi, fanno tante domande, spesso i genitori, gli insegnanti, gli altri adulti che li circondano rispondono raccontando storie. Leggere e ascoltare storie è un modo in cui possono costruire gli strumenti per capire se certe cose sono o non sono buone, se le cose che provano sono o non sono sbagliate. Le letture possono rafforzare e articolare quello che gli viene insegnato e allargare le conoscenze. È in questo bisogno di conoscenza che spero si inserisca e sia utile il mio contributo.

Di storie per bambini sui diversi argomenti psicologici ce ne sono tante, mi sembrava che mancasse invece un contenitore storico entro il quale farle scorrere e dar loro un significato, che ricostruisse la storia che certi concetti hanno iniziato tanti anni fa. La mia storia dei Piccoli Psicologi inizia con il personaggio di Anna. Ho voluto iniziare con Anna Freud piuttosto che con suo padre per presentare un personaggio femminile all’interno di un mondo e di un percorso che come molti altri è stato spesso caratterizzato da importanti e ingombranti figure maschili. Ve ne propongo un estratto.
“……..Anna era affascinata dagli studi di suo padre. Non sapeva perché ma suo padre si riuniva tutte le settimane, il mercoledì pomeriggio, nello studio con alcuni colleghi e parlavano per ore. Spesso Anna sbirciava dentro lo studio attraverso la fessura della porta socchiusa. Era molto curiosa. Avrebbe voluto entrare per ascoltare meglio ma non le era permesso………”

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Aiutiamo le vittime a svegliarsi dalla dipendenza affettiva: un modo per prevenire i femminicidi

Aiutiamo le vittime a svegliarsi dalla dipendenza affettiva: un modo per prevenire i femminicidi


Marisa Leo
è stata uccisa dall’ex fidanzato che doveva incontrare per un incontro chiarificatore.

Non bisogna andare agli ultimi appuntamenti, ma le future vittime già lo sanno e spesso il problema è che non riescono a tirarsi indietro. Nulla garantisce che, mancato uno, non ce ne saranno altri, perché accettare l’ultimo appuntamento è la prova inconfutabile che quel legame non è per niente risolto emotivamente. Alle segnalazioni e denunce della vittima, non corrisponde un cambiamento interno, emotivo nei confronti del partner maltrattante. Ed è su questo che va indirizzato il lavoro di aiuto.

Sono d’accordo con chi afferma che per risolvere i problemi che possono portare al femminicidio si deve lavorare per il risveglio della vittima, oltre che mettere in campo tutte le risorse necessarie a proteggerla e tutelarla da rischi futuri (L. Pigozzi). Molti interventi, peraltro importantissimi, fatti contro la violenza non modificanolo stato di dipendenza affettiva. In tali condizioni la vittima non è in grado di mantenere autonomamente la distanza di sicurezza dal suo carnefice, distanza che rimane gestita dall’esterno. Nessun servizio di protezione riuscirebbe mai a proteggere una potenziale vittima 24 ore su 24 e soprattutto da se stessa.

Molti interventi dunque non aiutano la vittima a capire qual è la difficoltà di uscire dalla condizione stessa di vittima, dallo stato di fragilità e dipendenza affettiva in cui si trova. Si dà per scontato che voglia uscire dalla relazione tossica, e sicuramente nei momenti acuti è così, e che sia il partner a impedirglielo. Questo è vero solo in parte. Il bisogno di controllo o di potere o di qualsiasi altra cosa da parte del partner va ad incontrarsi con bisogni emotivi non risolti della vittima, bisogni e insicurezze che possono far parte del suo modo di essere e quindi già presenti quando incontra il partner tossico o essere indotti gradualmente dalla tossicità della relazione.

Perché è così difficile uscire dalla dipendenza affettiva?

Le persone dipendenti e passive tendono a minimizzare i torti subiti. Una persona maltrattata mantiene il rapporto di dipendenza dal partner perché ha il senso di non potersela cavare senza di lui o di lei e per questo deve minimizzare il suo aspetto tossico. I meccanismi di autoinganno del cervello che lavorano per la stabilità che continuamente ricerchiamo, oltre che per il mantenimento di un senso positivo di sé, rendono difficile a volte riconoscere la tossicità di un rapporto come anche accettare l’idea di essersi sbagliate e aver scambiato un rospo per un principe.

Le persone, le donne maltrattate hanno spesso qualcosa che l’altro non ha. Una mia paziente, in buone condizioni economiche, si era legata a un partner meno abbiente ma con smanie di ricchezza, che pensava di raggiungere attraverso comportamenti delinquenziali. Lui mal sopportava la disparità economica che era motivo di maltrattamento verbale e fisico, al punto che per lei era diventato un problema essere benestante. Il modo possessivo e aggressivo di lui veniva comunque scambiato per amore e la brutalità quasi ricercata e vissuta come aspetto protettivo. Come diceva Bowlby, psichiatra e psicoanalista inglese, una caratteristica importante dei legami di attaccamento è la loro resistenza anche di fronte a maltrattamenti e punizioni perché un fattore stressante (il maltrattamento appunto) stimola il comportamento di attaccamento, anche se a fornirlo è la stessa figura che offre protezione.

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Perché il ceffone non serve a insegnare ai maschi il rispetto per le donne

Perché il ceffone non serve a insegnare ai maschi il rispetto per le donne

 

È in parte condivisibile la dichiarazione del presidente del Senato, Ignazio La Russa, in cui dice che il femminicidio non è un problema femminile ma maschile, anche se io direi che è maschile e femminile: nessuna delle due parti può pensare di risolverlo da sola visto che è la dinamica relazionale che si crea tra i due partner a costruire l’escalation che porta alla violenza

È condivisibile in pieno invece l’affermazione che il rispetto si apprende in famiglia o almeno primariamente in famiglia, ma poi anche a scuola e successivamente sul lavoro: è importante che i ragazzi conoscano il rispetto all’interno delle mura domestiche, che lo sperimentino di persona e soprattutto che lo vedano realizzato nella relazione tra i loro genitori. Non è invece condivisibile l’idea che si possa poi gestire il comportamento non rispettoso da parte dei ragazzi nei confronti delle donne attraverso gli schiaffi, cioè attraverso altra forma di violenza.

Se a un comportamento violento e non rispettoso si risponde con comportamento altrettanto violento che invade lo spazio personale, questo è altrettanto non rispettoso e rischia di avere un effetto iatrogeno (cioè indotta dalla terapia, ndr) e stimolare ulteriore violenza.

Non è attraverso la coercizione e la sopraffazione che si può insegnare il rispetto per le persone perché sono concetti incompatibili, il rispetto non è qualcosa che si può imporre ma qualcosa che si apprende per esperienza e per modello.

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