Storia della Psicologia – J. Bowlby e la Teoria dell’Attaccamento – (29)

Storia della Psicologia – J. Bowlby e la Teoria dell’Attaccamento – (29)

 

La teoria dell’attaccamento

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Nell’uomo, una caratteristica dell’attaccamento è che tale comportamento viene indirizzato prevalentemente verso un’unica persona privilegiata (figura d’attaccamento), che coincide in genere ma non necessariamente con la madre biologica, la quale risponde alle richieste di aiuto e conforto del bambino con il corrispondente comportamento di accudimento.

La preferenza per una figura d’attaccamento non va intesa in senso assoluto: gli attaccamenti di un bambino piccolo possono essere immaginati come una gerarchia: solitamente, ma non necessariamente, con la madre al vertice, seguita da vicino dal padre (o, raramente, il padre seguito dalla madre), poi i nonni, i fratellini, gli zii e così via.

I bambini piccoli in grado di camminare, sono fortemente inclini a seguire le loro figure di attaccamento ovunque esse vadano. La distanza alla quale il bambino si sente a suo agio dipende da fattori come l’età, il temperamento, la storia dello sviluppo, dal sentirsi affaticato, spaventato o malato, aspetti questi che aumenteranno il comportamento di attaccamento. Separazioni recenti dalla figura di attaccamento (malattia, viaggi, etc….), indurranno una maggiore ricerca di vicinanza.
La consapevolezza di poter contare sulla protezione e il conforto della figura d’attaccamento in caso di necessità, crea uno stato di sicurezza emotiva da cui è possibile partire per l’esplorazione: esplorazione del mondo esterno e del proprio mondo interiore (i propri sentimenti, i propri pensieri).
Infine, la prova migliore della presenza di un legame d’attaccamento è l’osservazione della reazione alla separazione. Bowlby identificò la protesta come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dai genitori. Pianto, grida, urla, morsi, calci: questi che sembrano cattivi comportamenti sono la reazione normale alla minaccia del legame di attaccamento e presumibilmente hanno la funzione di cercare di ripararlo e, punendo chi si cura del bambino, di evitare ulteriori separazioni.

Una caratteristica importante dei legami di attaccamento è la loro resistenza anche di fronte a maltrattamenti e punizioni. Nell’esperimento di Harlow, le scimmiette si aggrappavano più forte alle madri di stoffa, anche quando da queste usciva un getto di aria compressa. Questo fatto è solo apparentemente inspiegabile: un fattore stressante (il getto d’aria appunto), stimola il comportamento di attaccamento anche se a fornirlo è la stessa figura che offre protezione.

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Crisi di coppia: il dolore della separazione

Lasciare e essere lasciatiimage

Giorgio e Adele si sono lasciati. Convivevano da sei anni, ma era già da un paio che le cose non andavano. Lei ha iniziato ad avere voglia di uscire, di vedere gli amici, di ritardare il momento di tornare a casa, più stava fuori e meno aveva voglia di tornare, alla fine se ne è dovuta rendere conto: la loro relazione si era esaurita. Lo dice a Giorgio, per lui andava tutto bene. La chiusura di una relazione è dolorosa, sia per chi la decide, che per chi la subisce, se è condivisa o se non lo è.

Spesso pensiamo che chi si lascia ha in qualche modo esaurito il sentimento, prendiamo le parti di uno o dell’altro, se sono amici o parenti o noi stessi, cerchiamo di attribuire colpe e responsabilità e non consideriamo che lo stare insieme è un percorso, l’amore è un percorso che si costruisce insieme, se si interrompe è perché uno o entrambi hanno smesso di costruire. Magari hanno smesso di comunicare da tempo, di mettersi al corrente di qualche delusione vissuta nel rapporto, di preoccuparsi del reciproco benessere e della reciproca serenità.

La distanza affettiva crea le condizioni per qualsiasi cosa. A volte un tradimento può servire a chiarirsi o essere un tentativo di compensazione della sofferenza, un tentativo di soluzione, per salvare la coppia. Chi si sente trascurato può cercare fuori dalla coppia un sostegno temporaneo che gli consente di reggere il momento critico per poi rientrare. A volte la sofferenza è andata troppo oltre e l’evasione prende la mano.

Nella chiusura i partner affrontano la stessa sofferenza: il dolore del distacco da chi è stato importante, da una relazione che un tempo era speciale, da quello che poteva essere e non è stato o non è più, il senso di fallimento per il progetto interrotto, il senso di vuoto per lo spazio che l’altro lascia, uno spazio reale, concreto e uno interiore, affettivo: l’altro, sia il lasciato che colui che lascia, ha rappresentato fino a quel momento la conferma della propria identità che ora deve essere cercata altrove, era egli stesso una parte di quell’identità che dovrà essere ricostruita.

Se chi lascia ha iniziato a costruire dentro di sé il distacco tanto tempo prima, senza aggiornare l’altro o magari anche senza rendersene conto, al momento della rottura i due si possono trovare in posizioni molto distanti: uno pronto per iniziare un’altra vita, l’altro in balia degli eventi.

Chi lascia può sentirsi in colpa e avere paura di essere considerato e/o doversi considerare cattivo, insensibile, inadeguato, perché non è più innamorato. Ma forse la sua vera responsabilità è quella di non aver informato l’altro del disagio che si vive da tempo, per via di quella difficoltà a parlare e di quell’idea che lui/lei non avrebbe capito.

Chi è lasciato può rimanere incredulo e sentirsi poi abbandonato, triste, disperato, arrabbiato, con il dubbio di doversi attribuire la colpa per la fine, di doverla attribuire a qualche aspetto essenziale di sé, di stimarsi meno. Forse l’unica responsabilità che ha è di aver perso il contatto.

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