Le problematiche scolastiche degli adolescenti immigrati

Le problematiche scolastiche degli adolescenti immigrati

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Quali sentimenti accompagnano gli adolescenti immigrati nei loro processi di integrazione?

Non Il fenomeno dell’immigrazione è in costante crescita nel nostro paese e la scuola superiore ormai accoglie immigrati di seconda generazione, ragazzi e ragazze figli di immigrati, nati in Italia o arrivati in Italia in tenera età. E’ facile imbattersi in ragazzi dai marcati tratti orientali o africani o sudamericani, che parlano con perfetto accento romano.

Accedono al Centro di Ascolto prevalentemente su pressione dagli insegnanti che vivono la difficoltà di aiutarli, come nel caso di Jian.

Jian ha 14 anni, ha concluso il primo anno di liceo, non è andato a vedere i quadri: è sicuro di non essere stato ammesso al secondo anno, ma non vuole vederlo scritto.

E’ nato a Roma ma i suoi genitori sono cinesi, a pochi mesi è stato mandato in Cina dai parenti perché i genitori, in Italia da molti anni, non potevano occuparsene, sono commercianti e lavorano entrambi tutto il giorno. Torna a Roma all’età di 6 anni.

Dopo qualche anno i genitori entrano in crisi, la casa diventa teatro di continui litigi in cui a volte il ragazzo è coinvolto, gli viene richiesto più o meno esplicitamente di schierarsi, ma Jian non sente nessuno dei due genitori come punto di riferimento: ha paura del padre che a volte alza le mani, e tiene a distanza la madre che quando litiga con il marito se la prende anche con Jian, non vuole nessuno dei due vicino.

Non ricorda molto del suo trascorso con i nonni, neanche il cinese, e non lo vuole imparare qui, i genitori parlano poco l’italiano, non hanno mai fatto niente per migliorarlo, se capitano discussioni ognuno parla nella lingua che conosce meglio.

Non è raro che adolescenti immigrati di seconda generazione ignorino la loro lingua madre e siano estranei, nello stesso tempo, al paese di origine e a quello di immigrazione.

Succede che l’adolescente immigrato vorrebbe integrarsi con la nuova cultura ma questo può provocare sentimenti di colpa per il desiderio di allontanarsi dalle tradizioni familiari e per il tradimento nei confronti dei genitori che hanno lasciato il loro paese, lavorano duramente per non far mancare nulla ai figli e cercano di mantenere le tradizioni culturali.

Per quanto riguarda Jian in verità lui si sente italiano, ma sente di non poter portare avanti questa identità e di non riuscire ad appartenere a nessun gruppo di italiani.

Jian ha brusche cadute dell’umore, frequenta la scuola in maniera discontinua, a volte è assente per giorni, non riesce a studiare e il suo rendimento scolastico lo conferma. Vorrebbe lasciare la scuola perché non sa per chi proseguirla, non ha un buon rapporto con i compagni, si sente ignorato, poco considerato, ha l’impressioni che gli altri non siano interessati a lui. Non condivide interessi con loro che di solito parlano di calcio, scuola e compiti, mentre lui è interessato ad altro. Evita di avvicinarsi per paura di essere respinto. Il sentimento di estraneità prevale. I compagni in verità non lo escludono, anzi vorrebbero coinvolgerlo, hanno provato più volte, l’aspettativa di Jian è massima e finisce che si esclude da solo.

Il suo percorso inizia in salita, con l’impossibilità di mantenere una continuità nella relazione di attaccamento, aspetto riconosciuto ormai come elemento di vulnerabilità del percorso evolutivo (Bowlby). Non poter costruire legami di attaccamento stabili nel primo periodo di vita esercita un ruolo sfavorevole sullo sviluppo della personalità. La consapevolezza di poter contare sulla protezione e il conforto della figura di attaccamento in caso di necessità, crea uno stato di sicurezza emotiva da cui è possibile partire per l’esplorazione del mondo esterno e del proprio mondo interno. Possiamo perciò immaginare quali conseguenze può avere il mancato consolidamento di un legame di attaccamento. Jian è stato qualche mese con i genitori, poi è stato mandato in Cina, e si ricongiunge con loro quando ormai è passato troppo tempo per ricostruire il vecchio legame, un attaccamento sostitutivo era stato probabilmente ricostruito con i parenti con cui ha vissuto nei primi anni e da cui è stato separato. Ha perciò dovuto affrontare due passaggi importanti. I suoi genitori, poi, sono tutt’altro che stabili, date le pressanti problematiche lavorative ed economiche, quando non di coppia, che devono quotidianamente affrontare.

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Psicoterapia: solitudine, questa sconosciuta

 

Patrizia Mattioli

Solitudine: stare da soli e sentirsi soli

Ognuno ha la sua solitudine. Non parlo dello stare da soli, ma del sentirsi soli, quel vissuto emotivo che emerge anche in mezzo alla gente. Ogni solitudine ha il suo significato e per ognuno il sentimento di solitudine prende forme diverse: per alcuni è la percezione di un mondo ostile, negativo e indifferente per altri è il non avere punti di riferimento, per alcuni è il non riuscire a esprimere le proprie idee, per altri è la percezione di un abbandono vissuto o reale, per alcuni è percepire il punto di vista degli altri come non in linea con il proprio, per altri è una percezione di vulnerabilità e fragilità.

La solitudine è l’esperienza di sentirsi separato dagli altri. E’ un senso di estraneità e non appartenenza. E’ non condivisione. Per alcuni è sinonimo di insicurezza, autosvalutazione, per altri è il recupero delle forze e momento di creatività. Ogni aumento di autonomia produce inevitabilmente un aumento del sentimento di solitudine. E’ uno stato d’animo che può riguardare tutti in qualche fase della vita. Ogni età ha la sua solitudine. In tenera età è in relazione a quanto le figure di accudimento sono in grado di cogliere i bisogni del bambino e regolare in maniera coerente la presenza e la cura. E’ l’aumento di vulnerabilità ai pericoli ambientali. Nella fanciullezza può essere la paura di allontanarsi dalle figure di riferimento, o l’evitamento sociale per i più svariati motivi. In adolescenza è un sentimento che compare quando si diventa capaci di riflettere su se stessi, di guardarsi dentro, quando si prende consapevolezza dei cambiamenti in corso, quando si abbandonano le certezze dell’infanzia e della fanciullezza senza averne ancora di nuove. La solitudine è una grande sofferenza e nello stesso tempo una grande risorsa. Ritirarsi in solitudine, chiudersi in se stessi, è un modo fisiologico di rigenerarsi.

Grazie alla scoperta o alla riscoperta di parti di sé, si trovano le risorse per ripartire. A volte può essere necessario più tempo per ricominciare oppure l’individuo non ha gli strumenti per recuperare e si trattiene nel suo isolamento. Ma la vita moderna è frenetica, segue ritmi e propone spazi e obiettivi poco naturali. Nonostante tutto ci si adatta, con qualche costo sul piano personale (e sociale), ma non c’è tempo per recuperi fisiologici e a volte non si vedono di buon occhio isolamenti che la frenesia ha generato e così un ritiro diventa una depressione da eliminare a tutti i costi. In tempi diversi si può percepire un sentimento di solitudine come una risorsa o come una sofferenza. La paura della solitudine è la paura di ritrovarsi da soli con se stessi, con le proprie emozioni, è la difficoltà di stabilire un dialogo interiore, la difficoltà di incontrarsi. E’ anche l’incapacità di coinvolgersi in relazioni importanti, che siano di amicizia o sentimentali, o l’incapacità di stabilire contatti profondi e significativi con le persone care.

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