Storia della. Psicologia-Il Cognitivismo-(24)

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Storia della. Psicologia – Il Cognitivismo – (24)

Prima di proseguire va fatta qualche considerazione. Vediamo che si ripresentano nelle trattazioni cognitiviste i concetti di coscienza e inconscio che erano assenti invece nelle trattazioni comportamentiste. Secondo i comportamentisti il comportamento umano era il risultato di sequenze di stimolo-risposta che avvenivano indipendentemente dalla coscienza e di cui quest’ultima rappresentava un aspetto poco importante.
Gli psicologi cognitivi invece hanno cercato di capire come si sviluppa la coscienza, quali sono le sue funzioni e che relazione ha con l’inconscio nel regolare la condotta individuale. In questo senso anche per i cognitivisti (come per Freud), la coscienza rappresenta solo una piccola parte dei processi mentali che avvengono prevalentemente a livello inconscio.
Il concetto di inconscio cognitivo è però molto diverso da quello psicoanalitico. Non è il luogo del rimosso o delle pulsioni, ma una struttura complessa in cui vengono elaborate una grande quantità di informazioni. L’inaccessibilità alla coscienza non dipende da resistenze o meccanismi di difesa, ma dal fatto che i processi inconsci, rimanendo inaccessibili permettono alla coscienza di mantenere le sue funzioni che sono prevalentemente quelle di gestire i problemi creati dalle contingenze ambientali e mantenere la continuità storica dell’individuo attraverso l’identità personale.

Il lavoro di Guidano e Liotti diventa un punto di riferimento per i cognitivisti clinici per diversi anni. Successivamente i due autori svilupperanno punti di vista che li porteranno su strade diverse.
Alla fine degli anni Ottanta, Guidano sviluppa ulteriormente Guidano l’impostazione costruttivistica e chiamerà il suo approccio post-razionalista. Guidano afferma che l’uomo è essenzialmente un sistema chiuso che vive all’interno di una realtà del tutto personale di cui una parte importante è costituita dal proprio senso di identità personale. Ogni elaborazione di informazioni sia dall’esterno che dall’interno, è finalizzata al mantenimento di questa identità personale. Ovvero le strutture di significato personali sono più orientate a mantenere la propria stabilità interna che a cotruire una mappa dettagliata della realtà.
La maggior parte di questo lavoro si svolge all’interno del livello esplicito che deve risolvere due esigenze opposte: quella di essere coerente con il livello tacito quindi di fare in modo che le rappresentazioni mentali abbiano una corrispondenza per esempio con l’esperienza emotiva e quella di mantenere il più possibile stabile il proprio senso di identità personale.
Quando questo non avviene perché a livello tacito si verificano oscillazioni emotive particolarmente intense che non possono essere comprese sul piano esplicito come facenti parte di sé, queste vengono negate e percepite come qualcosa di estraneo (per esempio un attacco di panico) e il vissuto personale che ne deriva è di sofferenza.
Il compito della psicoterapia è secondo Guidano, quello di ricostruire le esperienze problematiche da diversi punti di vista per reintegrarle in una visione aggiornata della propria identità personale.
Un’applicazione del modello di Guidano alle dinamiche e alle relazioni familiari è stata fatta da M. Dodet, allievo di Guidano, il che ha consentito l’approccio alla terapia di coppia e di gruppo, fino a quel momento impensabili per la psicoterapia cognitivista.

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Identità Personale (II parte) – Come si costruisce

Identità Personale (II parte) – Come si costruisce

Come si costruisce l’identità personale?

Un aspetto importante nel percorso di costruzione dell’identità personale è costituito dai processi di identificazione.

L’identificazione è in generale, un processo attraverso il quale si acquisiscono ruoli sociali assumendo i tratti del comportamento delle persone che si ammirano. Attraverso l’identificazione possiamo aumentare la nostra autostima comportandoci come se fossimo la persona con cui ci identifichiamo.

I modelli che vengono scelti sono quelli che ci sembra abbiano più successo nel raggiungere i loro scopi.

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Durante lo sviluppo, attraverso i processi di identificazione il bambino imita a modo suo gli atteggiamenti dei genitori e questa interpretazione personale diventa una parte di sé.

I processi di identificazione si verificano in modo diverso ed hanno un peso diverso nelle varie fasi dello sviluppo.

Nella primissima infanzia è la qualità del rapporto con i genitori (o con i loro sostituti) ad avere rilevanza. La relazione genitore-figlio può essere considerata la base per lo sviluppo dell’identità e dell’atteggiamento verso se stessi, come anche del comportamento sociale e dell’atteggiamento verso il mondo esterno. Da bambini si impara a conoscere un mondo così come lo propongono i genitori e rimarrà l’unico mondo possibile per lungo tempo. Si dovrà aspettare l’adolescenza per cominciare a considerare anche altri aspetti della realtà.

Nei primi due anni di vita, a partire da certe predisposizioni genetiche che ereditiamo dai nostri genitori, gettiamo le fondamenta di quello che si svilupperà come il nostro senso di identità a partire dalla distinzione tra noi e gli altri.

Attraverso l’atteggiamento di cura, protezione e accettazione incondizionata dei nostri genitori, cominciamo ad avere un’idea di quello che siamo e di cosa ci possiamo aspettare dal mondo e dalle persone. Se possiamo contare su un buon attaccamento ci percepiamo amabili e competenti e percepiamo gli altri come disponibili e affidabili, e poiché la nostra mente non si limita ad una registrazione passiva delle cose che ci capitano ma è attiva e selettiva, tenderemo a prestare maggiore attenzione, crescendo, a quelle esperienze che confermeranno la nostra amabilità e competenza e la affidabilità degli altri, le quali rafforzeranno la nostra percezione di base e così via.

Al contrario in un attaccamento instabile ci percepiamo come non amabili e incapaci e percepiamo gli altri come inaffidabili e daremo risalto alle esperienze che confermeranno queste percezioni.

La stessa cosa vale per l’autonomia. Il percorso verso l’autonomia, che corre parallelo a quello dello sviluppo, si manifesta attraverso esplorazioni autonome che portano ad allontanarsi inizialmente per brevi momenti dai genitori. La loro approvazione e la loro disponibilità a fornire una base sicura durante questi momenti favoriranno il personale senso di sicurezza e di autonomia e stimoleranno ulteriori esplorazioni.

Alla fine dell’infanzia noi avremo elaborato una serie di schemi mentali stabili, inconsapevoli, su chi siamo noi e come sono gli altri, che influiranno sul nostro successivo sviluppo psicologico.

Durante l’età prescolare e nella fanciullezza i processi di identificazione avvengono sulla base della presenza concreta del genitore (o dei genitori) e aiutano il bambino a riconoscere le proprie emozioni, il proprio punto di vista e le proprie caratteristiche (è alto o basso, biondo o bruno, agile o impacciato, più portato per l’aritmetica che per l’italiano, etc…).

All’inizio della fanciullezza è acquisita in modo articolato e stabile una parte importante dell’identità: l‘identità di genere (maschile o femminile). Uno dei due genitori (di solito quello dello stesso sesso), viene scelto come oggetto di identificazione e viene assunto come modello principale per il comportamento, per il modo di pensare, di sentire e per gli atteggiamenti da assumere. Una adeguata identificazione con il genitore dello stesso sesso favorisce lo sviluppo di quei tratti di mascolinità o femminilità che caratterizzano la nostra identità personale. Una buona immagine di sé verso la fine della fanciullezza è legata alla qualità della relazione con il genitore dello stesso sesso.

Con il genitore di sesso opposto invece sviluppiamo la consapevolezza della nostra amabilità in quanto maschi (o femmine) e le abilità per interagire con le persone dell’altro sesso. Chi ha difficoltà ad entrare in rapporto con l’altro sesso, spesso non ha avuto un buon rapporto con il genitore di sesso opposto.

Durante l’adolescenza e la prima giovinezza, i processi di identificazione sono sempre meno legati alla presenza fisica dei genitori, poiché lo sviluppo della capacità di astrazione rende possibile l’interiorizzazione dei valori morali e delle regole di vita di tali figure.

La capacità di astrazione è la capacità di andare oltre i fatti concreti elaborando ipotesi e teorie sulla realtà al di là di quella che viene vissuta personalmente.

Questa capacità dà un nuovo significato alla dimensione del tempo: si prende consapevolezza di avere un passato e soprattutto ci si rende conto di avere un futuro (cosa che non era possibile nelle fasi precedenti se non per un futuro molto prossimo).

Rendersi conto che la realtà può avere diverse sfaccettature, porta ad una visione più relativistica di quello che la realtà è.

I genitori, che durante l’infanzia e la fanciullezza erano considerati come depositari di verità e valori assoluti, ora vengono considerati come persone comuni (relativizzati appunto), con le insicurezze e i problemi che caratterizzano la vita di tutti e quindi anche meno essenziali per la conferma della propria identità, conferma che comincia a essere ricercata nei rapporti extrafamiliari. Durante l’adolescenza si passa gradualmente da uno stato in cui l’aiuto, la guida, il sostegno, l’approvazione e la rassicurazione provengono dai genitori (dipendenza), a uno stato intermedio in cui il sostegno e l’approvazione provengono dalle amicizie, dai rapporti sentimentali, dai rapporti con altri adulti, per arrivare allo stato in cui si è in grado di pensare, valutare, fare scelte, prendere decisioni, seguendo il proprio punto di vista, senza grossi incoraggiamenti esterni (autonomia).

Durante questo percorso si susseguono vari stati emotivi: la rabbia (nei confronti dei genitori per la scoperta dei loro limiti), la colpa (per l’allontanamento da loro), il senso di indipendenza (dopo aver ritrovato un equilibrio) e tutto avverrà tanto meno dolorosamente, quanto più stabile e sicuro sarà stato l’attaccamento. Una buona relazione di attaccamento permette un adeguato processo di identificazione che a sua volta consente un adeguato distacco emotivo dai genitori, perché l’identificazione stessa contribuisce a mantenere il senso di continuità e unicità personale durante il processo di separazione che si conclude generalmente intorno ai venticinque anni. Se si prolunga oltre questa età, la personalità dell’individuo sarà maggiormente caratterizzata da tratti infantili.

Non è durante l’adolescenza che si costruisce un senso di identità, anche se i cambiamenti che avvengono in questo periodo (sul piano cognitivo, psicosessuale e affettivo), sono piuttosto ampi e a vari livelli come forse non accadrà in nessun altro periodo della vita.

Mentre durante lo sviluppo, il rapporto con le figure di attaccamento influenza direttamente la costruzione della propria identità personale, dall’adolescenza in poi i nuovi legami affettivi che si stabiliscono (prevalentemente quelli che risultano stabili nel tempo e in cui si raggiunge una certa intimità emotiva), tendono piuttosto a confermare, consolidare e allargare quanto è stato costruito.L’interruzione di un rapporto sentimentale o di una profonda amicizia per esempio, possono provocare un doloroso cambiamento nel senso di identità personale che termina solo quando l’individuo si è adattato alla nuova situazione.

Anche una volta raggiunta la maturità adulta, il sentimento della propria identità personale rimane legato al rapporto con gli altri: identificarsi con gli altri e rendersi conto di essere diversi da loro rimane la condizione essenziale. Gli atteggiamenti, le emozioni, i comportamenti che riconosciamo in noi stessi ci aiutano a conoscere e capire gli altri e viceversa gli aspetti che riconosciamo negli altri ci aiutano a capire e conoscere noi stessi.

Identità personale (I° parte) Che cos’è?

Identità personale (I° parte) Che cos’è?

Che cos’è l’identità personale?img_0982

 

L’identità personale è tutto ciò che noi siamo, le nostre caratteristiche fisiche, psicologiche, culturali a partire dal nome e dalla data di nascita. E’ l’espressione del rapporto tra una serie di aspetti personali: il modo di ragionare, di affrontare i problemi, di comunicare con gli altri, gli interessi, le abilità, l’atteggiamento verso il mondo esterno, i rapporti affettivi con le persone o con i luoghi, il modo di porsi nei confronti degli altri, i progetti per il futuro. Tutto questo ci rende unici e inconfondibili agli occhi degli altri e ci dà un senso di definizione, appartenenza e continuità nel tempo che ci permette di dire ogni giorno: “questo sono io”, riconosco me stesso come lo stesso di sempre anche di fronte a cambiamenti importanti.

L’identità personale si costruisce. Il processo di costruzione comincia alla nascita, si svolge prevalentemente nel rapporto con gli altri e non si ferma al raggiungimento dell’età adulta, ma prosegue per tutta la vita. Per tutta la vita aggiungiamo, togliamo o modifichiamo qualità, tratti, interessi, capacità nella nostra identità.  Molte delle cose che facciamo quotidianamente vanno a rafforzare o indebolire il nostro senso di identità.

Alcuni aspetti dell’identità personale sono abbastanza evidenti, come per esempio il sesso, la nazionalità, il ceto sociale (e su questi di solito non esistono grosse incertezze), altri che lo sono meno, come le caratteristiche psicologiche che sono di solito anche quelle che ci preoccupano di più perché non abbiamo mai un’idea precisa di come siamo. Ci chiediamo continuamente se siamo intelligenti o stupidi, coraggiosi o vigliacchi.

Un senso di identità personale abbastanza definito (in cui cioè l’individuo è abbastanza consapevole delle proprie caratteristiche) e stabile, permette di percepirsi e valutarsi in modo costante nel tempo. Questo aspetto è di fondamentale importanza dal momento che ogni essere umano si trova ad affrontare nel corso della vita situazioni esterne imprevedibili e in continua trasformazione.

Il mantenimento dell’identità personale è dunque importante e vitale: un individuo che sente instabile il suo senso di identità personale, non è più in grado di funzionare adeguatamente e perde il senso del rapporto con la realtà. Un senso di identità stabile è la condizione essenziale per sentirsi vivi.

Bruschi cambiamenti nella vita come un matrimonio, la nascita di un figlio, un lutto o anche una vincita miliardaria ad una lotteria possono modificare profondamente l’immagine che una persona ha di se stessa  e causare un senso di disagio e disorientamento fino a che non si ambienta nella nuova situazione di vita e nella nuova identità.

La solidità dell’immagine (positiva o negativa) che abbiamo di noi stessi è un bisogno umano allo stesso modo in cui lo sono il bisogno di sopravvivenza e di riproduzione. Dobbiamo continuamente avere la sensazione di essere qualcuno.

Un senso di identità fragile può avere origine dalle ripetute esperienze di disagio che hanno caratterizzato la storia dell’individuo, oppure da esperienze recenti e dolorose, per esempio un senso di identità negativa successiva alla chiusura di un rapporto affettivo, o alla perdita improvvisa del posto di lavoro.

Il senso di identità è molto legato ai luoghi che fanno parte della nostra quotidianità, luoghi in cui noi abbiamo la sensazione di avere un ruolo: la nostra casa con i nostri familiari, la nostra scuola con i nostri compagni e i nostri insegnanti, il nostro lavoro con i nostri colleghi e i nostri superiori, i nostri hobbies, il nostro quartiere, la nostra città. Se improvvisamente ci trovassimo contro la nostra volontà in un ambiente diverso, con persone sconosciute, senza i nostri effetti personali, senza poter mantenere il nostro ruolo e le nostre abitudini, proveremmo una forte oscillazione nel nostro senso di identità, con un forte senso di vuoto e un’incertezza fondamentale su chi siamo. E’ quello che succede per esempio agli immigrati o a chi si è trovato in carcere per sbaglio e inaspettatamente.

La forza del senso di identità è anche in relazione alla quantità di esperienze che abbiamo maturato e alla consapevolezza che abbiamo di queste.

Un’identità negativa sembra migliore di una vaga identità.

Il mondo dei genitori

Il mondo dei genitori

I genitori come “base sicura”

La genitorialità rappresenta un aspetto rilevante della vita dell’individuo, un elemento importante della propria identità personale. Lasciando per un attimo da parte le differenze individuali, vorrei fare alcune considerazioni generali sull’essere genitori, focalizzando l’attenzione su quegli aspetti che gli individui genitori hanno in comune, e che sono all’origine di una sensibilità particolare che raggiunge forse il suo apice in concomitanza con l’adolescenza dei figli.

Attualmente il ruolo di genitore, visto alla luce delle più recenti ricerche sull’attaccamento e dei frequenti e veloci cambiamenti sociali, si configura meglio come “base sicura” piuttosto che come educatore che favorisce l’interiorizzazione delle regole, dei valori e dei principi del contesto sociale di appartenenza e questo cambia sensibilmente l’atteggiamento dei genitori di oggi nei confronti dei propri figli, rispetto a genitori di generazioni passate. L’estrema mutevolezza del contesto e delle regole sociali costringono l’individuo adolescente di oggi a non poter più seguire semplicemente l’esempio dei genitori, ma a dover sperimentare di continuo in prima persona quali sono i comportamenti che meglio risolvono le problematiche che dovrà via via affrontare. L’individuo adolescente di oggi trova da solo il suo modo, ed è più utile per lui sapere di poter contare sul sostegno dei genitori in caso di difficoltà, piuttosto che fare riferimento a modelli comportamentali precostituiti.

Un’identità inventata

Gli attuali genitori, si trovano a vivere esperienze nuove rispetto al passato, cominciando dal fatto che si trovano più facilmente soli ad affrontare la responsabilità della crescita dei figli.

I disagi personali vissuti durante la propria crescita, le maggiori conoscenze della materia, i veloci cambiamenti sociali li hanno persuasi della impraticabilità per i loro figli ,dei valori che hanno vissuto su se stessi, della impossibilità di riproporre i modelli genitoriali che hanno vissuti loro stessi nella famiglia di origine.

Soprattutto la complessità dell’esistenza nella società in cui apparteniamo rende necessaria una notevole flessibilità e interscambiabilità di ruoli all’interno della famiglia: i padri, tendono oggi a lasciare spazio in alcune delle aree che erano di loro esclusiva competenza, dedicandosi a quelle funzioni affettive che in passato erano delegate quasi totalmente alla figura materna. Le madri rinunciando in parte all’esclusività del rapporto con i figli hanno maggiori possibilità di realizzazione personale all’esterno della famiglia. Questo non senza difficoltà da parte di entrambe le figure.

I nuovi ruoli che si definiscono all’interno della famiglia non implicano semplicemente che i genitori fanno cose diverse da prima, ma anche che gli attuali ruoli non sono sostenuti da modelli di riferimento con cui identificarsi come invece avveniva in passato. I genitori di oggi risolvono il loro compito provando e riprovando, andando per tentativi ed errori . I modelli dei propri genitori sono considerati ormai inadeguati. Questo non avere punti di riferimento può avere riflessi negativi sul piano dell’identità genitoriale che ne risulta più incerta. Un’identità genitoriale incerta è certamente più fragile e vulnerabile e meno propensa a confrontarsi con il mondo esterno, che può anche essere vissuto come pericoloso.

L’atteggiamento dei genitori verso gli insegnanti

comunicascuola.it

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I genitori attuali possono entrare in relazione con il mondo esterno con un’ombra di diffidenza dovuta a quella paura di essere definiti, criticati e disconfermati che un’identità (genitoriale) vaga sempre comporta. Quest’ombra di diffidenza può entrare anche nella scuola e condizionare i rapporti tra genitori e insegnanti e può essere superata solo se e quando il genitore sente che il suo operato di genitore non sarà giudicato.

Il giudizio di un insegnante può essere all’origine di dolorose oscillazioni sul piano dell’identità genitoriale, probabilmente per questo a volte gli insegnanti vengono screditati e di fronte ad un loro giudizio critico il genitore tende a schierarsi dalla parte del figlio proteggendolo, proterggendo in fondo anche se stesso. Anche individui che godono di sicurezza in altre aree personali, per esempio nell’area professionale, tendono a rifiutare il giudizio perché magari interpretato e vissuto più su un piano personale che non semplicente riferito all’andamento della vita scolastica del figlio. Il colloquio con un insegnante è un momento importante e delicato in cui il genitore può sentire in ballo l’adeguatezza o inadeguatezza del suo fare il padre o la madre.

In generale il modo di essere dei figli può rappresentare una specie di esame per i genitori, l’esame del progetto affettivo/educativo portato avanti con loro fino a quel momento, in ultima analisi la prova dell’adeguatezza/inadeguatezza della loro funzione genitoriale. Evidentemente questo è più vero durante l’adolescenza dei figli e ancora di più per quella che si vive a scuola.

I sentimenti dei genitori verso i figli

Un’identità genitoriale fragile è anche più sensibile agli allontanamenti, fisici e ideologici che l’adolescenza impone. Il genitore spesso non si sa spiegare questi allontanamente o ricorre a spiegazioni che mettono in dubbio le sue competenze: il distacco adolescenziale del figlio equivale allora ad un venir meno del proprio senso di capacità genitoriale.

Questo perché i figli sono una parte di sè, della propria identità. Per loro e con loro si provano emozioni forti, belle e brutte. I figli possono essere fonte di orgoglio ma possono anche far emergere sentimenti di inadeguatezza e incapcità mai focalizzati prima, che si attivano ai primi segnali di allontanamento.

Anche per questo i genitori di adolescenti provano emozioni ambivalenti: sono orgogliosi delle conquiste e dell’indipendenza dei figli e nello stesso tempo soffrono perché sanno che non potranno più proteggerli, che non saranno più il centro del loro universo, che cominceranno a sentirsi esclusi dalla loro vita. Sono incerti e preoccupati per gli esiti che la riorganizzazione adolescenziale porterà nella vita di tutti i familiari. Si sentono spaesati perché l’autonomia del giovane lascia vuoto lo spazio che prima era dedicato alla sua crescita, e su cui hanno sempre investito molto.

Il lavoro nell’equilibrio personale

Magritte

Se non si trova o si perde il lavoro  è meglio dare la colpa a cause esterne o  attribuirsene la responsabilità?

Il lavoro è uno dei fondamenti dell’equilibrio psichico personale.

Avere un lavoro stabile, signifca avere delle sicurezze, poter costruire un progetto: una famiglia una casa. Significa   poter produrre scenari per il futuro.

Perdere il lavoro o non riuscire a trovarlo genera insicurezze ben al di là delle difficoltà economiche. Sul piano psicologico va a minare le fondamenta del proprio senso di sè, della propria identità personale.

Chi non riesce a trovare lavoro, non ha la possibilità di mettersi alla prova, non è in grado di costruire un senso di sè più  articolato rispetto alle proprie capacità personali, ha difficoltà a vedere il proprio futuro.

Per chi il lavoro lo perde e non riesce a ricostruire una dimensione lavorativa entro breve, il futuro si ferma. Anche se ha costriuito nel tempo una solida identità professionale, corre lo stesso rischio di chi non ha mai lavorato: entrare nel dubbio fondamentale rispetto a se stesso e alle proprie competenze: di essere/non essere più capace di lavorare, di essere/non essere più utile alla società, alla famiglia, di non avere più un senso e un ruolo,. E’ una situazione che si verifica qualche volta anche dopo il pensionamento, soprattutto se è anticipato e viene subìto o se non si sono costruite alternative al lavoro prima di andare in pensione.

Il senso di sè di chi è, o è diventato disoccupato, non è o non è più sostenuto dalle relazioni esterne  (dai colleghi, dal capo, dall’esercizio delle proprie mansioni)). Quindi manca di tutta una serie di conferme esterne, con conseguenze sul piano emotivo/affettivo.

E’ importante cogliere il vissuto negativo che ne può derivare, in termini costruttivi,come spinta a fare e non al contrario.

Fa la differenza come ci si spiega quello che accade.

Chi lo attribuisce a se stesso, a qualche propria mancanza o inadeguatezza (“non lavoro perchè sono un incapace,  …perchè non sono abbastanza bravo,…”),  mette in discussione se stesso  e mantiene stabile il mondo’esterno.  Magari tende a chiudersi, a limitare i contatti con gli altri anche per  le difficoltà economiche. L’isolamento può essere  un importante momento di recupero.

Attribuirsi le responsabilità rappresenta anche un tentativo di riprendere il controllo della situazione: significa implicitamente riconoscersi la possibilità di cambiare di trovare una soluzione: “se lo si è generato, lo si può risolvere”purchè si preveda di poter migliorare la propria presunta mancanza.

Per chi lo  attribuisce all’esterno (“non lavoro perchè non mi viene data la possibilità,..perchè non mi viene riconosciuto il diritto,…, perchè non ci sono opportunità,..”)), il proprio senso di competenza personale non ne risulta toccato, ma  si perde il senso di poter influire sugli eventi- Possono  prevalere  sentimenti di impotenza o di ingiustizia. Anche questo atteggiamento  però può essere considerato come tentativo di  riprendere il controllo. Se la responsabilità è del mondo esterno, basta cambiare contesto per recuperare.

Attribuzioni totalmente interne o totalmente esterne non sono in grado di spiegare adeguatamente un fenomeno che è evidentemente il risultato della complessa interazione tra i due modi di vedere le cose.

In ultima analisi però attribuire  responsabilità a sè o agli altri non ha importanza, purchè si colga l’aspetto generativo di entrambi gli atteggiamenti.