Le storie dei personaggi famosi, come Adele ad esempio, offrono il pretesto per parlare di problematiche diffuse.
Adele voleva compensare la profonda ferita causata dall’assenza del padre nella sua vita costruendo una famiglia sua, visto che non ne aveva avuta una. Voleva proteggere suo figlio dall’esperienza che lei stessa aveva vissuto. Non esserci riuscita, aver divorziato e “smantellato la vita di mio figlio per la mia” ha generato forti sensi di colpa e attacchi di panico.
Del panico si è parlato in questi giorni e voglio aggiungere qualcosa.
Se è vero che non ci sono segnali premonitori di un attacco di panico, che per definizione è inaspettato e imprevedibile, si può però cogliere un aumento dei fattori di rischio rispetto a esso. Fattori forse utili per la prevenzione o anche solo per rispondere alla domanda: perché un attacco di panico adesso? Perché ora e non prima, o dopo? Cos’è cambiato da altri momenti in cui si è verificato quello stesso segnale fisico che oggi scatena l’ansia intensa e innesca quel senso di allarme, di pericolo, di perdita di controllo?
Spesso, ricostruendo la storia delle persone, si ritrovano, come per Adele, cambiamenti importanti nelle relazioni significative. Non servono anni di terapia per ricostruire una storia di vita e/o i momenti di vita che precedono l’esordio di un sintomo, ma piuttosto un’indagine precisa, che ripercorra la strada a ritroso e raccolga le chiavi di lettura attraverso le quali la persona dà significato all’esperienza.
La scuola attuale favorisce gli studenti tradizionalmente più capaci a memorizzare e ragionare in modo analitico. Privilegiare il ragionamento analitico, quello che si misura attraverso i test che danno come risultato un Qi (quoziente intellettivo), cioè un numero che indica quanto la persona si colloca nella media dei risultati generali, è però di scarsa o nulla utilità per risolvere i problemi attuali del mondo. Non si può considerare l’intelligenza come un’unica funzione valutabile attraverso abilità logico-matematiche.
E’ quello che sostiene Robert Sternberg, psicologo statunitense, tra i maggiori studiosi dell’intelligenza e dello sviluppo cognitivo. Se l’uomo continua ad agire così, lascerà ai figli e ai nipoti un mondo surriscaldato e inquinato. Abbiamo bisogno di ripensare l’intelligenza in termini più ampi.
Secondo Sternberg l’Intelligenza è ciò che una persona fa della sua vita e non la prestazione a test di stimoli artificiali che non hanno niente a che vedere con la vita reale. Sono ‘intelligenti di successo’ le persone consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza, che riescono a valorizzare i primi e a correggere o compensare i secondi.
I punti di forza e di debolezza sono valutati in base a quattro abilità: creative, analitiche, pratiche e basate sulla saggezza. L’individuo ha bisogno di essere creativo per generare idee nuove e utili; analitico per accertare che le idee che ha (e che altri hanno) siano buone; pratico per applicare quelle idee e convincere gli altri del loro valore – l’intelligenza pratica corrisponde a quello che in genere chiamiamo “senso comune”- e saggio per assicurare che l’attuazione delle idee contribuisca a garantire un bene comune attraverso la mediazione di principi etici positivi.
La ricerca di Sternberg ha mostrato che molte persone che hanno un’alta intelligenza scolastica (quindi un alto Qi) mancano di senso comune e viceversa molte persone con grande senso comune non hanno un Qi particolarmente elevato. Negli Stati Uniti (e io direi anche qui da noi), l’ammissione universitaria – per esempio – spesso dipende dall’intelligenza scolastica e non dall’intelligenza pratica, così si finisce per collocare in posizioni di leadership persone con titoli universitari per le quali sono dolorosamente non qualificate. Sono persone in grado di risolvere problemi scolastici, ma non problemi reali.
forme di intelligenza per raggiungere un bene comune, in prospettiva sia a breve che a lungo termine.
Il Q.I. è di scarsa o nulla utilità per risolvere i problemi che affronta il mondo: l’autoritarismo, il razzismo, la xenofobia, le armi di distruzione di massa, il terrorismo, l’inquinamento, il cambiamento nel clima globale, la pandemia….
La salute mentale oltre il Covid: gli investimenti continueranno anche dopo l’emergenza?
Il 10 ottobre è la giornata mondiale della salute mentale.
La salute mentale è importante: per l’Organizzazione mondiale della Sanità, è una componente essenziale della salute in generale, “uno stato di benessere nel quale una persona può realizzarsi, superare le tensioni della vita quotidiana, svolgere un lavoro produttivo e contribuire alla vita della propria comunità”.
Belle parole dovrebbero avere un risvolto concreto: si dovrebbe investire molto sulla prevenzione, sulla psicologia che è la scienza che per definizione si occupa della costruzione delle condizioni di benessere.
Ci sono paesi in cui gli psicologi sono presenti nelle scuole, nelle aziende, paesi dove le persone hanno accesso alla consulenza e alla cura psicologica nei servizi pubblici. In Italia è diverso, a fronte di tante buone intenzioni corrisponde molto poco di quello che viene prospettato.
Poi tra le persone che vorrebbero accedere a servizi di psicologia, ci sono quelli che se la prendono con gli psicologi – piuttosto che rivolgersi a chi è nella posizione di cambiare le cose – che sono percepiti quasi come professionisti che vogliono arricchirsi alle spalle di chi soffre, che sfruttano la sensibilità delle persone. Anche le cure del dentista devono essere pagate per lo più di tasca propria, ma i dentisti non vengono percepiti così.
C’è chi ritiene che la psicologia sia inutile e che le cose hanno spiegazioni molto concrete. Spesso non si distingue tra quello che si dovrebbe fare per risolvere un problema e quello che realmente si riesce a fare. E che se una persona non riesce è per una personale incapacità o perché non vuole.
Quando non si riesce a raggiungere un obiettivo nonostante lo si voglia, è probabile che ci si trovi di fronte a un ostacolo psicologico che, se non viene riconosciuto e approfondito, può diventare un problema più grande trasformarsi in sintomo fisico o mentale ecc… Piaccia o meno, l’essere umano è il risultato dell’integrazione tra corpo e psiche: il corpo che si ammala influenza lo stato emotivo e gli stati emotivi influiscono sul corpo, facendolo ammalare. Ce lo spiega bene la psicosomatica.
Pensiamo alla pandemia: chi si è ammalato ha fatto i conti con i sentimenti di fragilità e vulnerabilità, con la paura di non farcela, con il senso di solitudine e di abbandono per l’isolamento a casa o all’ospedale, chi non si è ammalato ha vissuto la paura di ammalarsi, di perdere persone care o ha vissuto il dolore di averle perse e l’impotenza di fronte anche all’impossibilità di salutarle. Tutti gli altri, privati di libertà date sempre per scontate, per il bene comune, hanno dovuto affrontare lo stare da soli con se stessi o la convivenza forzata con i familiari. Quello che non si è potuto evitare o che non si è riusciti a comprendere è diventato un sintomo.
Il coronavirus – e le sue implicazioni – è forse l’esperienza più attuale che ha reso meglio questo concetto, perché non è stato, non è, solo una malattia che colpisce chi lo contrae, ma è stato, ed è all’origine di sofferenze psicologiche altrettanto importanti.
La reazione delle autorità alle problematiche psicologiche conseguenti alla pandemia e al lockdown è stata qui più puntuale. Si era prospettata l’idea di finanziare bonus per i cittadini che offrono spese per le cure psicologiche.
Vittorie e medaglie sono il risultato di allenamento, disciplina, fatica, rinunce. A volte il prezzo della vittoria è più alto della soddisfazione per la vittoria stessa. Si può immaginare che atlete che si ritirano, come Simone Biles – o che vengono sorprendentemente sconfitte, come Naomi Osaka – abbiano buoni motivi per farlo, non sempre comprensibili da fuori.
Provo a fare qualche riflessione sugli aspetti prettamente psicologici che portano alla rinuncia.
Aspetti che evidentemente sono molteplici, alcuni a breve, altri a media, altri ancora a lunga distanza dalla decisione finale di interrompere il percorso per cui si lavora da anni.
Non c’è dubbio che le pressioni sugli atleti che arrivano a rappresentare il proprio paese in competizioni importanti come le Olimpiadi siano molto alte. Cominciano nel momento in cui uno sportivo si avvicina al suo sport in modo agonistico: non si “gioca” più. Pressioni che aumentano n maniera direttamente proporzionale ad ogni traguardo raggiunto. E’ un carico che l’atleta non porta da solo, la maggior parte dei successi sono il risultato di un lavoro di squadra. Ma c’è sempre un piano più personale di peso e dipenderà da molte cose quanto il singolo atleta saprà sopportarlo.
Sarà importante l’andamento delle sue relazioni, sia nella squadra, che nella vita privata. Cambiamenti importanti in ognuna delle parti avranno una ricaduta sullo stato d’animo che potrebbero richiedere un periodo di tempo lungo per essere integrate. Cambiamento di allenatore, di staff, di compagni di gara magari più bravi che mettono in discussione i primati personali, come anche separazioni, perdite, malattie, sono solo alcuni tra gli elementi rilevanti. Anche inaspettate oscillazioni nella prestazione minano il proprio senso di capacità ed efficacia personale.
Potrebbe essere quello che è accaduto a Simone Biles, che dichiara di aver perso la fiducia in sé, di non divertirsi più, di sentirsi sola in pedana contro i suoi demoni. Quali demoni? Nell’ultima gara durante il volteggio è atterrata male sulla caviglia destra, ottenendo il suo punteggio più basso, anche se sempre più alto delle altre. Una performance che intacca l’immagine di campionessa. Sono allora i demoni della sconfitta e del fallimento?
Se si è abituati a vincere, a eccellere, ad avere il controllo della situazione, una leggera flessione mette a rischio la gara e una mancata vittoria può essere vissuta con un molto poco sportivo senso di fallimento, di delusione, di sconfitta. Non so Simone Biles, ma i comuni mortali usano spesso ritirarsi da una competizione o una situazione in cui non sono sicuri di “vincere”. Meglio un dignitoso ritiro che un’umiliante perdita.
Anche uno scarto tra le aspettative e quello che effettivamente accade può minare le sicurezze di un atleta e rendere sbagliato qualsiasi risultato. E’ quello che forse è successo a Naomi Osaka, tennista numero 2 al mondo, anche lei uscita dalla competizione olimpica dopo una sconfitta. Osaka afferma di aver sofferto di attacchi di depressione dagli Us Open del 2018, dove alla finale sconfisse Serena Williamse il pubblico finì per fischiarla piuttosto che applaudirla. Un’esperienza con cui forse ancora si confronta, lei che si racconta come una persona molto introversa, che ha paura delle persone e ascolta musica con le cuffiette mentre è in partita, per ingannare la sua sensibilità.
Ha sconfitto un’avversaria che però era anche un suo idolo, si è trovata perciò a vincere (un torneo) e perdere (un modello di riferimento) contemporaneamente. La disapprovazione del pubblico ha fatto il resto. Ogni risultato da lì in poi sembra sbagliato, se vince rivive la disapprovazione e la perdita di un modello che per essere efficace dovrebbe rimanere sempre inarrivabile, se perde delude se stessa, i fan, la squadra, il Paese. Un problema senza soluzione che si risolve con il ritiro.
Si discute se sia stata opportuna o meno l’apertura degli open day ai giovani e sui rischi che comporta per un ragazzo o una ragazza vaccinarsi con un vaccino piuttosto che un altro, con la necessità di valutare di volta in volta quanto i rischi superino i benefici o viceversa.
Alcuni ritengono che vaccinarsi sia una scelta che si fa, un rischio che un ragazzo si assume, che nessuno costringe un diciottenne a vaccinarsi. Opinioni emerse soprattutto parlando dalla triste vicenda di Camilla, la ragazza ligure felice di aver fatto il vaccino anticipatamente durante un open day, con il famigerato AstraZeneca. Anticipare il vaccino per anticipare la ripresa delle abitudini interrotte con la pandemia e il lockdown,
Nessuno obbliga un ragazzo, ma in effetti sì. Concretamente non c’è nessuno che li prende di peso e li porta a vaccinarsi, certo, ma la prospettiva di un ritorno alla vita normale e le pressioni psicologiche hanno lo stesso effetto, se non maggiore. Perché i ragazzi non si vaccinano per paura del Covid, o per lo meno non principalmente per quello. Li muove di più il bisogno di libertà, l’idea di rimettersi in movimento e di riprendere a esplorare. Una delle preoccupazioni più forti in adolescenza riguarda proprio l’indipendenza e ogni opportunità di perseguirla viene selezionata istintivamente.
Li muove di più anche il bisogno di sostegno all’identità personale che si va consolidando, e perciò la necessità di ritrovarsi, di recuperare le relazioni – di amicizia, di coppia, di gruppo – relazioni sospese o distanziate da troppo tempo, il poter di nuovo trasgredire o debuttare in qualcosa. Li spinge di più il bisogno di alleggerirsi dai sensi di colpa di cui li abbiamo caricati facendo pressione sulla responsabilità che avrebbero sui genitori o sui nonni o su altri cari in caso di contagio. Ho letto di serate organizzate per motivare/convincere i più restii, con musica suonata dai dj più apprezzati.
Non è facile chiedere scusa e fanno notizia persone al potere che lo fanno: Angela Merkel che si scusa per l’errore sul lockdown di Pasqua, Giuseppe Conte che un anno fa si scusava per i ritardi sugli aiuti economici. Le loro scuse hanno avuto grande attenzione dai media che le hanno definite segnali di debolezza e grandezza nello stesso tempo. Considerate così insolite da ritenerle future pagine di libri di Storia.
Per chiedere scusa bisogna in realtà essere forti e stabili. Studi sul tema mettono in evidenza che la capacità di scusarsi denota la presenza di capacità autoriflessive, di un equilibrio psicologico stabile, di buone capacità adattive. I più inclini alle scuse hanno in genere un senso positivo di sé, credono nella possibilità di migliorare dagli errori. Chi è tendenzialmente più tollerante, meno giudicante verso le persone e i fatti, sembra essere più capace di riconoscere e accettare i propri errori e mettere in atto azioni di recupero.
Perché per altri invece rimane tanto difficile chiedere scusa? Probabilmente perché chiedere scusa richiama insicurezze personali, come se scusarsi significasse abbassare le difese e mettersi in una posizione di maggiore vulnerabilità di fronte agli altri che allora possono giudicare se si merita o meno la comprensione o il perdono.
Chiedere scusa comporta la consapevolezza di essere in torto e a volte ammettere anche solo a se stessi di aver sbagliato è un passaggio delicato che può mettere in discussione la positività del proprio senso di sé e dell’immagine che si mostra agli altri. È infatti più difficile riconoscere l’errore se questo non rimane circoscritto al singolo comportamento o alla singola scelta ma viene generalizzato a tutta la persona, trasformando il senso di aver sbagliato nel vissuto di essere sbagliati (non è un comportamento, ma l’intera persona a non andare bene). Riconoscere i propri errori è allora difficile perché rischia di creare forti oscillazioni emotive, cosa che contrasta con l’umano bisogno di stabilità. E nel tentativo di mantenere la stabilità interiore si può arrivare a negare l’evidenza. Proteggere la propria immagine in certi momenti può essere una priorità.