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Vittorie e medaglie sono il risultato di allenamento, disciplina, fatica, rinunce. A volte il prezzo della vittoria è più alto della soddisfazione per la vittoria stessa. Si può immaginare che atlete che si ritirano, come Simone Biles – o che vengono sorprendentemente sconfitte, come Naomi Osaka – abbiano buoni motivi per farlo, non sempre comprensibili da fuori.

Provo a fare qualche riflessione sugli aspetti prettamente psicologici che portano alla rinuncia.
Aspetti che evidentemente sono molteplici, alcuni a breve, altri a media, altri ancora a lunga distanza dalla decisione finale di interrompere il percorso per cui si lavora da anni.

Non c’è dubbio che le pressioni sugli atleti che arrivano a rappresentare il proprio paese in competizioni importanti come le Olimpiadi siano molto alte. Cominciano nel momento in cui uno sportivo si avvicina al suo sport in modo agonistico: non si “gioca” più. Pressioni che aumentano n maniera direttamente proporzionale ad ogni traguardo raggiunto. E’ un carico che l’atleta non porta da solo, la maggior parte dei successi sono il risultato di un lavoro di squadra. Ma c’è sempre un piano più personale di peso e dipenderà da molte cose quanto il singolo atleta saprà sopportarlo.

Sarà importante l’andamento delle sue relazioni, sia nella squadra, che nella vita privata. Cambiamenti importanti in ognuna delle parti avranno una ricaduta sullo stato d’animo che potrebbero richiedere un periodo di tempo lungo per essere integrate. Cambiamento di allenatore, di staff, di compagni di gara magari più bravi che mettono in discussione i primati personali, come anche separazioni, perdite, malattie, sono solo alcuni tra gli elementi rilevanti. Anche inaspettate oscillazioni nella prestazione minano il proprio senso di capacità ed efficacia personale.

Potrebbe essere quello che è accaduto a Simone Biles, che dichiara di aver perso la fiducia in sé, di non divertirsi più, di sentirsi sola in pedana contro i suoi demoni. Quali demoni? Nell’ultima gara durante il volteggio è atterrata male sulla caviglia destra, ottenendo il suo punteggio più basso, anche se sempre più alto delle altre. Una performance che intacca l’immagine di campionessa. Sono allora i demoni della sconfitta e del fallimento?

Se si è abituati a vincere, a eccellere, ad avere il controllo della situazione, una leggera flessione mette a rischio la gara e una mancata vittoria può essere vissuta con un molto poco sportivo senso di fallimento, di delusione, di sconfitta. Non so Simone Biles, ma i comuni mortali usano spesso ritirarsi da una competizione o una situazione in cui non sono sicuri di “vincere”. Meglio un dignitoso ritiro che un’umiliante perdita.

Anche uno scarto tra le aspettative e quello che effettivamente accade può minare le sicurezze di un atleta e rendere sbagliato qualsiasi risultato. E’ quello che forse è successo a Naomi Osaka, tennista numero 2 al mondo, anche lei uscita dalla competizione olimpica dopo una sconfitta. Osaka afferma di aver sofferto di attacchi di depressione dagli Us Open del 2018, dove alla finale sconfisse Serena Williamse il pubblico finì per fischiarla piuttosto che applaudirla. Un’esperienza con cui forse ancora si confronta, lei che si racconta come una persona molto introversa, che ha paura delle persone e ascolta musica con le cuffiette mentre è in partita, per ingannare la sua sensibilità.

Ha sconfitto un’avversaria che però era anche un suo idolo, si è trovata perciò a vincere (un torneo) e perdere (un modello di riferimento) contemporaneamente. La disapprovazione del pubblico ha fatto il resto. Ogni risultato da lì in poi sembra sbagliato, se vince rivive la disapprovazione e la perdita di un modello che per essere efficace dovrebbe rimanere sempre inarrivabile, se perde delude se stessa, i fan, la squadra, il Paese. Un problema senza soluzione che si risolve con il ritiro.

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