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J. Bowlby sin dall’inizio della sua professione si era occupato di bambini con problemi psicologici. Durante il suo lavoro aveva costatato come tutti i bambini che soffrivano di qualche forma di disagio psicologico (scarsa affettività, inclinazione al furto,…), avevano nella loro storia esperienze di deprivazione di cure materne e di separazioni.
Nel 1949 era stato incaricato di scrivere un lavoro sulla salute mentale dei bambini senza famiglia nell’Europa del dopoguerra, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e questo gli aveva offerto l’opportunità di entrare in contatto con studiosi che come lui si occupavano dell’effetto sui bambini della separazione e della deprivazione di cure materne. Questo confronto aveva rafforzato in lui l’idea che l’inadeguatezza delle cure materne esercitasse un ruolo sfavorevole sullo sviluppo della personalità: i bambini piccoli che si trovavano separati da coloro che conoscevano e che amavano, provavano, non meno degli adulti, intense emozioni di dolore e tormento mentale con infelicità, proteste rabbiose, disperazione, apatia e ritiro in se stessi.
Gli effetti a lungo termine  delle separazioni e deprivazioni, potevano talvolta essere disastrosi e condurre alla nevrosi, alla delinquenza, alla malattia mentale o, comunque innescare il ciclo di deprivazione: il bambino emotivamente deprivato diventava da adulto un genitore trascurante o maltrattante.
Bowlby ne concluse che le cure materne nella prima infanzia e nella fanciullezza fossero essenziali per la salute mentale: per crescere psicologicamente sano il bambino deve poter sperimentare una relazione affettuosa, intima e continua con la madre (o con un suo sostituto), per un periodo di tempo abbastanza lungo. Si convinse inoltre che il bisogno di dipendenza affettiva non era una forma di immaturità da superare, ma una caratteristica fondamentale della natura umana.
L’idea della deprivazione materna come causa di malattie mentali era un concetto rivoluzionario per quei tempi anche se parliamo soltanto di cinquant’anni fa.

Basandosi sulle recenti conoscenze scientifiche, Bowlby sviluppò una nuova teoria della motivazione e del controllo del comportamento incompatibile con il modello basato sull’energia psichica adottato da Freud, che considerava ormai superato.
I concetti freudiani di pulsione e istinto furono sostituiti dal concetto di sistemi comportamentali controllati in modo cibernetico e organizzati come gerarchie di piani (seconda l’ottica cognitivista di Miller, Galanter, Pribram, 1960). I sistemi comportamentali (o sistemi motivazionali) sono comportamenti complessi che ereditiamo geneticamente, che regolano aspetti importanti del nostro rapporto con l’ambiente (delimitazione del territorio, difesa dai predatori, ecc….) e con gli altri individui (costruzione, consolidamento e rottura dei rapporti sociali). Sono comportamenti innati, che però dipendono dalle condizioni ambientali per il modo e il tempo in cui si manifestano in ogni individuo.
Alcuni comportamenti sono maturi alla nascita, per esempio quelli che regolano il ciclo sonno/veglia, l’alimentazione, e il comportamento di attaccamento (altri sistemi comportamentali, per esempio quelli che regolano l’unione sessuale, la competizione o la collaborazione, hanno bisogno di diversi anni per arrivare ad uno sviluppo completo).
Il comportamento di attaccamento presente e sviluppato fin dalla nascita dimostra la predisposizione primaria degli esseri umani (così come di altre specie) ad instaurare legami affettivi. La sua funzione è, sul piano individuale, quella di ottenere e mantenere la vicinanza di una figura rassicurante e protettiva ogni volta che ci si sente vulnerabili o minacciati nella propria incolumità protestando energicamente se tale vicinanza è negata o impossibile, e sul piano più generale di garantire la sopravvivenza e la riproduzione della specie.
Tale tendenza innata rimane attiva per tutta la vita anche se opera con maggiore intensità e frequenza nei primi anni, quando la vulnerabilità ai pericoli ambientali è maggiore, e minore la capacità di gestire da soli situazioni di disagio. Per i piccoli delle specie sociali infatti, ogni esperienza di solitudine, anche una breve separazione dalle figure di attaccamento, è un segnale di vulnerabilità potenziale ai pericoli ambientali, e quindi uno stimolo potente per l’attivazione del sistema potenziale dell’attaccamento (la protezione dai predatori era un’esigenza vitale nell’ambiente in cui si è evoluto l’uomo primitivo).

(segue)