da patrizia mattioli | Mar 11, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
È certamente deprecabile il gesto del ragazzo di 15 anni che a Taranto prende a calci e pugni un professore, come lo è il comportamento del genitore che aggredisce un insegnante… ma quando si pubblicano queste notizie, gli articoli sono piuttosto sintetici, dando quasi per scontato che ciò che è scritto è tutto quello che basta sapere, come se gli episodi non avessero una storia e gli aggressori fossero gli unici protagonisti. Il professore aggredito dal quindicenne è il marito di un’insegnante del ragazzo. C’è una relazione tra i fatti?
Quella che leggiamo è una narrazione coerente con il periodo storico che vuole genitori e studenti carnefici e insegnanti e scuola vittime, senza neanche provare a ricostruire gli antecedenti di quanto accade. Narrazione sostenuta purtroppo anche da stimati colleghi che dovrebbero piuttosto lavorare per costruire una spiegazione condivisa su come si è arrivati a certi eccessi. Dal punto di vista del responso finale questo probabilmente non cambierebbe nulla, quello studente rimarrebbe comunque responsabile dell’aggressione, come anche quel genitore.
Cambierebbe molto invece per quel che riguarda le possibili soluzioni. Non è certo l’inasprimento delle pene a evitare aggressioni, per lo più istintive e risultato di un percorso che non si costruisce da soli, dove ogni componente fa la sua parte. Vorrei sottolineare ancora una volta che la scuola è luogo di apprendimento e formazione e non di addestramento al quale sono delegati altri spazi.
Peraltro non deresponsabilizzerei la scuola e gli insegnanti a priori senza entrare nel merito dei singoli episodi. La maggior parte degli insegnanti e dei dirigenti sono appassionati del loro lavoro, focalizzati sui bisogni dei loro studenti, sensibili alle loro richieste. Ci sono poi quelle eccezioni che arrivano nella scuola per ripiego, o magari non hanno ottenuto quel trasferimento e/o che non sono “risolti” nelle vicende personali e inconsapevolmente, ma a volte anche no, abusano della posizione che ricoprono per tiranneggiare, giudicare, disapprovare apertamente gli studenti, che lavorano con atteggiamenti pregiudiziali, che si accaniscono con quelli che non sono gli allievi modello di cui hanno bisogno per sentirsi confermati.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Mar 4, 2024 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Anoressia, ortoressia, vigoressia, drunkoressia: sono tante le etichette per comportamenti disfunzionali focalizzati sul corpo. Nell’anoressia c’è l’eccessiva preoccupazione per il peso, con una distorsione dell’immagine corporea e le restrizioni alimentari. Nell’ortoressia c’è l’attenzione ossessiva per un’alimentazione sana. La drunkoressia si realizza nella ricerca di un equilibrio tra cibo e alcol: una minima assunzione di cibo consente una maggiore assunzione di alcolici e un sufficiente senso di sazietà. Nella vigoressia prevale l’insoddisfazione per un corpo percepito come troppo magro e poco muscoloso, con l’ossessione per il fitness e il culturismo in compensazione.
A guardarli da fuori sembrano tanti problemi diversi. A guardarli da dentro sono sfaccettature di un unico problema che parte da un profilo comune di personalità caratterizzato da un senso di sé vago, indefinito, con un bisogno estremo di approvazione da parte degli altri e la costante paura di essere giudicati, intrusi, disconfermati. Il tutto accompagnato da un profondo senso di inadeguatezzapersonale e una significativa difficoltà relazionale.
Chi ha un’idea vaga di sé, di chi è, di come si sente, cerca le risposte negli altri, nella loro opinione e questo spiega la paura di essere giudicati e intrusi. La ricerca di una rivalsa, di una superiorità, attraverso un corpo tonico, muscoloso, magro, sano, ecc. massimizza le possibilità di essere apprezzati, confermati, e di sentirsi adeguati, anche se distaccati, dagli altri. I modelli con cui ci si confronta sono spesso modelli poco realistici, molto distanti da quello che si è.
Succedeva in passato, dietro i condizionamenti di televisione e rotocalchi. Succede ora condizionati dal web.
Va detto che noi tendiamo a generalizzare i momenti che cogliamo negli altri. Se per esempio incontriamo un amico in un momento di serenità siamo portati a credere che tutta la sua esistenza sia così. Se una persona ha un successo, ha successo sempre, su tutto. I social sono speciali in questo, “facilitatori amplificati” di illusioni, di modelli irrealistici. Quello che si vede pubblicato convince che chi pubblica sia: capace, vincente, perfetto, ecc., generando così modelli di confronto irrealistici appunto che hanno giusto il “pregio” di far sentire totalmente inadeguati.
Se hanno questo effetto sugli adulti, ancora di più sugli adolescenti, soggetti insicuri per definizione. In adolescenza il bisogno di conferma e riconoscimento è fisiologico e molte problematiche si concentrano sul corpo, perché il corpo è la prima sicurezza che si perde nel passaggio dalla fanciullezza. Se oggi certi atteggiamenti disfunzionali risultano anticipati, è probabilmente anche legato all’esperienza del lockdown che li ha portati ancora più impreparati al passaggio evolutivo………..
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Feb 19, 2024 | Adolescenza, Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Fa notizia la decisione del giovane cantante Sangiovanni di ritirarsi dalla scena pubblica per ritrovarsi. La sua decisione è l’espressione di una maturità e di una consapevolezza che appartengono poco alla sua fascia di età.
Il successo e la fama, molto ambiti, hanno un costo che in una giovane età potrebbe risultare devastante. Non sono i pochi casi di talenti della musica, dello sport o di altre discipline che pagano con l’infelicità il prezzo del successo. Un’infelicità che poi per essere tollerata deve essere anestetizzata, mettendo così a rischio l’esistenza stessa della vita.
Il successo non può prescindere dal prendersi cura di sé e dal rimanere centrati su se stessi. Se avere successo è molto ambito, raggiungerlo ha effetti collaterali che non sempre sono evidenti da fuori.
In generale è nella natura dell’uomo ricercare l’approvazione dei suoi simili: considerata la strada per accedere più facilmente a vantaggi e benefici. Il successo e la fama rappresentano l’amplificazione di questa disposizione di base. I social consentono una realizzazione accelerata e amplificata della notorietà. In un primo momento ci può essere l’apprezzamento per la centralità e il riconoscimento da parte degli altri. Poi si comincia a fare i conti con la perdita della privacy e del proprio spazio individuale. Paradossalmente la persona famosa si ritrova in uno stato di isolamento e solitudine maggiore rispetto a chi non lo è, con la costante difficoltà di trovare un equilibrio tra privato e pubblico. Se poi il successo arriva improvvisamente e inaspettatamente, la persona può sentirsi inadeguata e non meritevole e avere paura di essere smascherato e perdere tutto.
Uno dei rischi più comuni sembra quello di perdere in specificità e identitàpersonale. Il pubblico tende a costruire un’immagine del personaggio famoso diversa da quella reale e la star meno “equipaggiata” psicologicamente tende ad aderire a questa immagine deformata, magari facendo scelte che non gli appartengono, rischiando maggiormente di perdere il contatto con i propri tratti più caratteristici e di compromettere così la propria identità personale e con essa la stabilità emotiva e l’equilibrio psicologico.
da patrizia mattioli | Set 13, 2023 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Marisa Leo è stata uccisa dall’ex fidanzato che doveva incontrare per un incontro chiarificatore.
Non bisogna andare agli ultimi appuntamenti, ma le future vittime già lo sanno e spesso il problema è che non riescono a tirarsi indietro. Nulla garantisce che, mancato uno, non ce ne saranno altri, perché accettare l’ultimo appuntamento è la prova inconfutabile che quel legame non è per niente risolto emotivamente. Alle segnalazioni e denunce della vittima, non corrisponde un cambiamento interno, emotivo nei confronti del partner maltrattante. Ed è su questo che va indirizzato il lavoro di aiuto.
Sono d’accordo con chi afferma che per risolvere i problemi che possono portare al femminicidio si deve lavorare per il risveglio della vittima, oltre che mettere in campo tutte le risorse necessarie a proteggerla e tutelarla da rischi futuri (L. Pigozzi). Molti interventi, peraltro importantissimi, fatti contro la violenza non modificanolo stato di dipendenza affettiva. In tali condizioni la vittima non è in grado di mantenere autonomamente la distanza di sicurezza dal suo carnefice, distanza che rimane gestita dall’esterno. Nessun servizio di protezione riuscirebbe mai a proteggere una potenziale vittima 24 ore su 24 e soprattutto da se stessa.
Molti interventi dunque non aiutano la vittima a capire qual è la difficoltà di uscire dalla condizione stessa di vittima, dallo stato di fragilità e dipendenza affettiva in cui si trova. Si dà per scontato che voglia uscire dalla relazione tossica, e sicuramente nei momenti acuti è così, e che sia il partner a impedirglielo. Questo è vero solo in parte. Il bisogno di controllo o di potere o di qualsiasi altra cosa da parte del partner va ad incontrarsi con bisogni emotivi non risolti della vittima, bisogni e insicurezze che possono far parte del suo modo di essere e quindi già presenti quando incontra il partner tossico o essere indotti gradualmente dalla tossicità della relazione.
Perché è così difficile uscire dalla dipendenza affettiva?
Le persone dipendenti e passive tendono a minimizzare i torti subiti. Una persona maltrattata mantiene il rapporto di dipendenza dal partner perché ha il senso di non potersela cavare senza di lui o di lei e per questo deve minimizzare il suo aspetto tossico. I meccanismi di autoinganno del cervello che lavorano per la stabilità che continuamente ricerchiamo, oltre che per il mantenimento di un senso positivo di sé, rendono difficile a volte riconoscere la tossicità di un rapporto come anche accettare l’idea di essersi sbagliate e aver scambiato un rospo per un principe.
Le persone, le donne maltrattate hanno spesso qualcosa che l’altro non ha. Una mia paziente, in buone condizioni economiche, si era legata a un partner meno abbiente ma con smanie di ricchezza, che pensava di raggiungere attraverso comportamenti delinquenziali. Lui mal sopportava la disparità economica che era motivo di maltrattamento verbale e fisico, al punto che per lei era diventato un problema essere benestante. Il modo possessivo e aggressivo di lui veniva comunque scambiato per amore e la brutalità quasi ricercata e vissuta come aspetto protettivo. Come diceva Bowlby, psichiatra e psicoanalista inglese, una caratteristica importante dei legami di attaccamento è la loro resistenza anche di fronte a maltrattamenti e punizioni perché un fattore stressante (il maltrattamento appunto) stimola il comportamento di attaccamento, anche se a fornirlo è la stessa figura che offre protezione.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Giu 8, 2023 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
È in parte condivisibile la dichiarazione del presidente del Senato, Ignazio La Russa, in cui dice che il femminicidio non è un problema femminile ma maschile, anche se io direi che è maschile e femminile: nessuna delle due parti può pensare di risolverlo da sola visto che è la dinamica relazionale che si crea tra i due partner a costruire l’escalation che porta alla violenza
È condivisibile in pieno invece l’affermazione che il rispetto si apprende in famiglia o almeno primariamente in famiglia, ma poi anche a scuola e successivamente sul lavoro: è importante che i ragazzi conoscano il rispetto all’interno delle mura domestiche, che lo sperimentino di persona e soprattutto che lo vedano realizzato nella relazione tra i loro genitori. Non è invece condivisibile l’idea che si possa poi gestire il comportamento non rispettoso da parte dei ragazzi nei confronti delle donne attraverso gli schiaffi, cioè attraverso altra forma di violenza.
Se a un comportamento violento e non rispettoso si risponde con comportamento altrettanto violento che invade lo spazio personale, questo è altrettanto non rispettoso e rischia di avere un effetto iatrogeno (cioè indotta dalla terapia, ndr) e stimolare ulteriore violenza.
Non è attraverso la coercizione e la sopraffazione che si può insegnare il rispetto per le persone perché sono concetti incompatibili, il rispetto non è qualcosa che si può imporre ma qualcosa che si apprende per esperienza e per modello.
leggi tutto il post su Il Fatto Quotidiano
da patrizia mattioli | Apr 21, 2023 | Blog su Il Fatto Quotidiano, NEWS
Mary guarda quella sigla che ha perso il significato originale di amore eterno. Di eterno è rimasta solo lei, una data e due lettere che ora sembrano particolarmente stonate sulla pelle. E’ pentita di aver dato a quella storia uno spazio così indelebile. Perché lo ha fatto?
In generale il significato dei segni sulla pelle va ricercato nel contesto culturale e nella storia di vita di una persona. Quando un adolescente ricorre al tatuaggio, spesso lo fa per un’affermazione di sé, come a dire “io sono io”.
Attraverso la trasgressione, se il tatuaggio non è ben visto in famiglia, l’adolescente cerca di individuarsi, o di affermare la sua identità, di rivendicare la sua indipendenza, di sfuggire al controllo genitoriale.
Anche per Mary era stato così: i suoi non volevano e lei lo aveva fatto alla prima occasione, la prima vacanza studio all’estero, in una parte del corpo non visibile. Un’affermazione di sé all’insaputa dei genitori, senza rischiare ripercussioni.
Se pensiamo al tatuaggio come a una forma di espressione di sé, esso può rappresentare diversi significati e funzioni:
– quella di esorcizzare una paura; chi ha paura di un animale può tatuarsi quell’animale e avere così l’impressione di dominarla e sentirsi più sicuro.
– quella di convincersi che modificare l’immagine del corpo possa avere ripercussioni positive sulla mente.
– quella di suggellare un legame affettivo o un momento della vita e farlo rimanere nel tempo, come un tatuaggio.
– quella di rispondere a un bisogno di miglioramento: il tatuaggio può abbellire o coprire un difetto, una cicatrice, una macchia.
Ci si tatua per un senso di appartenenza, a un gruppo, a una cultura. O per il bisogno di sorprendere: Alessio ha un tatuaggio enorme sulla schiena. Gli piace stupire gli altri, soprattutto i colleghi che lo vedono sempre impeccabile negli abiti e nei modi per poi scoprire, magari al mare o in palestra, un’altra parte di lui, quella più trasgressiva che sembra sfidare la tenuta del rapporto di amicizia o professionale con il messaggio implicito: “mi apprezzi e mi accetti per come sono o per come sembro?”
Ci si fa un tatuaggio anche quando si ha difficoltà ad elaborare esperienze e vissuti, che comunque sono presenti e attivi. Le parole e i pensieri diventano azioni sul corpo, a volte contro il corpo, lì dove si percepisce concretamente la sofferenza. A volte emozioni come l’inadeguatezza, la colpa, la vergogna, la rabbia, l’odio emergono da dentro a fuori, da sotto a sopra la pelle.
Risale alle esplorazioni nel Settecento dell’inglese James Cook il ritorno del tatuaggio (dal polinesiano tau tau, che significa “segno sulla pelle”) in Europa al suo ritorno dai Mari del Sud. Ma il tatuaggio ha origini molto antiche che risalgono apiù di 5000 anni fa. Gli studiosi della materia ipotizzano che sia nato come metodo per lenire i dolori sfregando sulla pelle carbone polverizzato, e che abbia assunto solo successivamente altri significati.
Nelle culture occidentali il tatuaggio ha alternato periodi di centralità a periodi di assenza e di divieto. I Celti adoravano divinità animali e se ne disegnavano simboli sulla pelle. Gli antichi romani, al contrario, credevano nella purezza del corpo umano e vietavano i tatuaggi che venivano usati soltanto per marchiare i criminali.
leggi tutto il post su
Il Fatto Quotidiano